Gibbons/Górecki, trip-opera
Beth Gibbons, cantante dei Portishead, dà voce alla Sinfonia No. 3 di Henryk Górecki
Chissà mai quale fascino arcano esercita la Sinfonia No. 3 – detta “dei canti dolenti” – composta nel 1976 da Henryk Górecki, accolta in malo modo l’anno seguente alla prima parigina (le cronache riferiscono che al termine Pierre Boulez si levò in piedi e gridò: “Merde!”).
Il riscatto per Górecki giunse nel 1992, quando fu pubblicata la versione della London Sinfonietta con la direzione di David Zinman e la soprano Dawn Upshaw. Divenne – fra lo stupore generale – best seller da oltre un milione di copie, maggiore in assoluto nel repertorio classico del tardo Novecento, e si diramò nella cultura popolare attraverso ripetuti utilizzi al cinema (da Fearless di Peter Weir a Basquiat di Julian Schnabel) e in televisione.
Anche per questo la terza sinfonia del compositore polacco viene guardata tuttora con sussiego dai “puristi”, che considerano evidentemente troppa ordinaria quella forma di minimalismo infuso di sacralità, affine ai lavori di John Taverner e Arvo Pärt: atto conclusivo della transizione dall’avanguardia alla musica tonale del compositore polacco. L’effetto si è riverberato fino ai giorni nostri: nel 2016 affrontò la partitura, rielaborandola radicalmente, il sassofonista americano Colin Stetson in Sorrow ed è ora il turno di Beth Gibbons, cantante dei Portishead, padri fondatori del trip hop a Bristol insieme a Massive Attack e Tricky. Da qualche giorno è in circolazione la testimonianza su disco e dvd della performance da lei sostenuta il 29 novembre 2014 a Varsavia, con l’accompagnamento dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Radio Polacca diretta dall’eminentissimo Krzysztof Penderecki.
Un compito invero arduo per varie ragioni. Il libretto, anzitutto: scritto nella lingua dell’autore, memorizzato senza conoscerla. E poi l’intonazione: da contralto si è ritrovata a cimentarsi in una parte da soprano. E si sente, specialmente nel primo movimento, in cui personifica la Vergine Maria di fronte al Gesù morente descritta in un testo del folklore locale del XV secolo: la voce vacilla e s’incrina nello sforzo, creando tuttavia pathos. La Gibbons è più a suo agio nel secondo, che narra la separazione tra madre e figlia in un campo di concentramento nazista, donando all’interpretazione un’intensità straordinaria. Nel terzo, infine, dove un’altra madre piange il figlio disperso durante l’insurrezione del 1919 in Slesia, mette in mostra una fragile vulnerabilità che ne rispecchia il sentimento affranto.
Non impeccabile tecnicamente, Gibbons vince la partita spostandola sul piano del trasporto emotivo, mentre l’esecuzione degli orchestrali – con cadenza accelerata rispetto all’edizione citata: 49 minuti scarsi contro 53 abbondanti – la sorregge con misura ed eleganza.