La "eeriness" di Mary Halvorson
Riflessioni a margine del concerto del Mary Halvorson Octet a Musicafoscari: un meraviglioso esempio di musica perturbante, e di straniante bellezza
Qualche riflessione dal concerto del Mary Halvorson Octet a Musicafoscari.
Se, prendendo spunto dalla riflessione su weird e eerie brillantemente condotta dal filosofo Mark Fisher nell’ultimo libro pubblicato prima della prematura scomparsa, ci chiedessimo quali musicisti jazz potremmo ricondurre a una delle due categorie, forse ci troveremmo facilmente d’accordo sugli “strani” (Sun Ra? Cooper-Moore? Qualche improvvisatore radicale?), ma potrebbe non filare tutto liscio con gli “inquietanti”.
Sia che ci si richiami alla nozione di “perturbante” di matrice freudiana, sia che si segua Fisher nella sua acuta critica a quella nozione, che lo porta piuttosto verso un’idea di “inquietante” in cui “qualcosa è presente laddove ci aspetteremmo che non ci fosse”, spesso i linguaggi del jazz sembrano eludere questa dimensione.
Per prevalenza dello spirituale, del virtuoso, del dialogico, perché no, del divertente.
Ma anche le esperienze più sperimentali, proprio per il fatto che ci aspettiamo – e spesso pretendiamo – l’inatteso, non si riescono con facilità a ricondurre a quel senso di inquietudine.
Mi venivano in mente queste riflessioni ieri sera, mentre ascoltavo il concerto dell’ottetto di Mary Halvorson, in un gremito e entusiasta Auditorium Santa Margherita a Venezia (nell’ambito della rassegna di Musicafoscari). E mi sono accorto che se c’è una musicista che assocerei all’eerie/uncanny è proprio la chitarrista di Boston, artista che seguo con attenzione sin dai suoi esordi (la sua prima apparizione italiana, nel Trio Convulsant di Trevor Dunn fu proprio a Venezia, al Teatro Fondamenta Nuove in cui all’epoca lavoravo) e che si è guadagnata in questi anni, dopo un’iniziale diffidenza, il plauso anche del mondo più mainstream del jazz.
Un ottetto stimolante e dalle sonorità originali, come già era emerso dal disco Away With You del 2016, un’intricata avventura multidimensionale in cui a cucire la sezione dei fiati (Dave Ballou alla tromba, Jon Irabagon al sax alto, Ingrid Laubrock al sax tenore e Jacob Garchik al trombone) e la ritmica (John Hébert al contrabbasso e Thomas Fujiwara alla batteria) sono la chitarra della leader e la pedal steel guitar di una musicista anomala e fantastica come Susan Alcorn.
Proprio la “strana coppia” costituita dai due strumenti e dalle personalità delle rispettive titolari è il dispositivo in grado di aprire evocativi scenari sonori, ma anche di agglutinare riff aguzzi, abbracciarsi, contrastarsi, assentarsi o consentire agli altri di sparire all’improvviso.
È musica difficile da inquadrare, quella della Halvorson: sembra quasi raccogliere da dietro un cespuglio arso dal sole il testimone lasciato dal Bill Frisell degli anni Novanta e non è forse un caso che la vicenda veda coinvolto un chiaro elemento “Americana” come la pedal steel guitar, e che sia approdata alla recente collaborazione in duo tra la Halvorson e Frisell.
Di quel Frisell la Halvorson raccoglie secondo me proprio quel senso di inquietudine, di quotidianità straniata, di tradizione apparentemente aleggiante, ma in realtà resa fantasma (la Alcorn in questo è vera maestra): c’è il giro armonico classico che ti fa sorridere ma che all’ultima battuta si sposta – come nella pungente "Away With You (no. 55)". C’è il crescendo corale che si interrompe quando uno non se lo aspetta; ci sono momenti di impasto fiatistico quasi ellingtoniano che sembrano attendere il via per sprigionare una insopprimibile funkyness e che invece aleggiano come una nuvola iridescente. C’è un mood da “midwest cubista” che sembra sempre preludere a qualcosa di terribile e che viene condotto dalla chitarrista con la solita, candida, impassibilità.
Personalissimo e originale, il mondo dell’ottetto della Halvorson è un ottimo esempio di eeriness: popolato da una sorta di presenza aliena, presaga e in grado di mettere in crisi l’identità dell’ascoltatore, che trova ogni volta spostata di pochi centimetri la “maniglia” delle certezze, minacciosa nella sua sorridente linearità, nella inintelligibilità del perché presenze e assenze si trovino proprio qui davanti a noi questo momento.
In questa prospettiva anche la non eccessiva “showmanship” del gruppo dal vivo (sono musicisti pazzeschi, Irabagon e Hébert su tutti insieme alle chitarriste, rilassati ma concentrati su spartiti e intrecci più che verso il pubblico, come notava acutamente qualcuno ieri nel dopo concerto) è un elemento che – data l’efficacia della musica – si aggiunge a questa mappatura di presenze aliene.
È una personalità eccellente del panorama contemporaneo quella di Mary Halvorson: apparentemente timida dietro gli occhiali, appoggia la borsetta sulla sedia dove suonerà, sorride con limpidezza ai compagni di avventura, ma ogni attacco è ben governato dai suoi sguardi.
É musica di straniante bellezza, di quelle che potrebbero svanire al risveglio.
Ma il senso di inquietudine difficile che se ne vada.
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