Il ritratto in jazz di Judi Jackson
La giovane cantante americana Judi Jackson in concerto a Roma in occasione del suo tour europeo
La cantante americana Judi Jackson all'Alcazar Live di Roma ha presentato il suo Judi Jackson – Live in London (Lateralize Records).
Ci sono infinite possibilità per esplorare gli spazi ignoti della creatività. Lasciarsi guidare dall’istinto, dalla forza delle emozioni, o dall’amore tenace per la musica può servire a nutrire la parte più vera di un artista. Per Herbie Hancock «improvvisare – l’essere nel momento – significa esplorare ciò che non sai. Significa entrare in una stanza buia nella quale non riconosci nulla. Significa lasciarti guidare dall’istinto più che dalla mente». Il concerto di Judi Jackson a Roma è una fotografia chiara del pensiero di Hancock. Il suo essere jazz, soul, R’n’B, blues, detta le regole all’interno di una scatola chiusa, come in un vortice sospeso nel tempo, in cui tutto sembra possibile, in cui la libertà espressiva è il principale codice per orientarsi in uno spazio nuovo. Quel luogo sacro, dove l’improvvisazione non è solo una concessione, un lasciarsi andare, diventa soprattutto un perdersi dentro di sé, rivelando anche l’errore, creando qualcosa di completamente inaspettato. Tutti siamo rapiti, meravigliati dalla dura consapevolezza dell’artista, chiamati a partecipare al suo rito quotidiano con la musica.
L’ingresso nel mondo di Judi Jackson è sconcertante. In lei, nel suo corpo esile e sinuoso, coesistono grazia, introspezione e potenza affascinante. Judi Jackson è la reincarnazione di una energia ed elasticità vocale, di un’espressività fiera che affonda le radici in un particolare periodo storico, in cui cantare, improvvisando, diventa anche un atto politico, sociale, di travolgente protesta. «La musica va ascoltata in modo assoluto, non lo si può fare parlando, lavando i piatti o facendo l’amore», ammonisce dal palco, con un’autorevolezza raffinata, perché per lei la musica è uno specchio che non serve soltanto a riflettere l’immagine, ma qualcosa che oltrepassa il tangibile. È come se la musica le avesse salvato la vita e ora le stesse restituendo quello che la vita stessa le ha tolto. La sua difesa in nome della musica è caparbia, tenace, unica. È una protezione religiosa, una fede incondizionata. Si esprime con una voce che ha la stessa orgogliosa rabbia di Nina Simone, a cui dedica un progetto (Little girl Blue, a tribute to Nina Simone) e che riconosciamo nell’interpretazione sublime di “Sinnerman”, ma graffia ripetutamente l’anima come quella di Janis Joplin, o Amy Winehouse, in “Like a Fool”. Sa essere anche profondamente calda, intima, come quella di Billy Holiday, Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald o Mahalia Jackson. Le sue donne, quelle che ricorda con un timbro delicato, con salti vocali impetuosi, sono parte integrante della sua storia, le ha introiettate, prendendosi cura di loro, prima di lasciarle andare per ricercare la propria strada.
La voce di Judi Jackson è il jazz, se per jazz s’intende la capacità di accettare l’imprevedibilità, di cogliere, nell’attimo in cui arrivano, messaggi emozionali nascosti, prima di trasformarli in piccole perle. Nonostante i suoi venticinque anni, è una donna e le sue corde vocali ce lo rivelano. Da brani come “Worth It”, a “Over the Moon” , in cui l’atmosfera cambia e diventa più rarefatta, anche grazie alla perfetta sintonia che si realizza con i tre musicisti (Jamie Safir al pianoforte e tastiere, Michael Shrimpling al contrabasso e Will Cleasby alla batteria), che l’accompagnano sul palco. Fino a “Lover or Friend” – e per un attimo si ha l’impressione di aver raggiunto l’Africa più nera, quella studiata dal padre Alonzo Levi Jackson (batterista, percussionista e studioso della cultura africana), quando il canto invece si fa corposo e dal palco partono giochi vocali pirotecnici rosso fuoco. Se fosse solo voce ci basterebbe, ma il suo talento è elettrico, perché parte dai piedi e arriva fino alle mani, al corpo che muove con sensualità, fino allo sguardo famelico, penetrante, assoluto, che parla di vita e di morte.
Se Wynton Marsalis non l’avesse scoperta, quella sera al Jefferson Center, a Roanoke (Virginia), nella sua città natale, quando aveva appena quattordici anni, forse, Judi Jackson non sarebbe diventata ciò che è oggi, o ciò che sarà. Ma di sicuro, attraverso l’arte e le sue innumerevoli rappresentazioni, avrebbe dato sfogo alla sua immaginazione, piena di verità. Per fortuna, però, ha scelto la musica. Come ricorda ancora Hancock «padroneggiare completamente il jazz non si può, perché il jazz è qui e ora, e ogni momento è unico, il che ti impone di scavarti dentro». E lei ci riesce magistralmente, in maniera ipnotica, perché questo è il richiamo della sua natura.
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