Arrivano quasi in contemporanea gli album di due musicisti con alle spalle storie personali che vale la pena raccontare. E non è tutto: i due dischi sono anche belli.
Dopo la presenza di un remix della sua canzone “Noirse” nella compilation Saint Heron, uscita per l’omonima etichetta creata da Solange Knowles, sorella di Beyoncé, Petite Noir si è fatto conoscere a livello internazionale grazie all’album d’esordio del 2015 La Vie Est Belle, descritto da Yannick Llunga (questo il suo vero nome) come noirwave, un genere che si estende oltre i confini della musica per abbracciare nuovi concetti di libertà, potere e solidarietà africana.
Tre anni dopo ecco questo mini-LP con sei canzoni intitolato La Maison Noir, accompagnato da un videoclip di diciotto minuti girato tra le dune del deserto della Namibia, un ulteriore passo in avanti all’interno della noirwave e delle sue radici congolesi per esplorare nuove idee di genere, identità di migrante e resistenza politica.
Da ragazzo Yannick e la sua famiglia dovettero scappare dalla Repubblica Democratica del Congo e andare in esilio a causa delle minacce di morte rivolte a sua padre, precedentemente ministro della DCR: dopo soggiorni in Belgio e Francia, da alcuni anni lui e la famiglia risiedono stabilmente a Cape Town, in Sudafrica. La sua discografia finora ha spaziato dal post-punk al kwaito (fusione molto in voga in Sudafrica di house, garage, afropop e hip-hop), dall’alt-rock al pop, il tutto fortemente ancorato alle radici dei suoni della sua infanzia, ma è con questo nuovo lavoro che lo stile e la sostanza dell’Africa prendono il sopravvento.
Si comincia col singolo che ha preceduto il mini-LP, “Blame Fire”, col suo andamento poliritmico e la sua gioia euforica: «È una frase che ho creato per esprimere come si sente una persona che ha vissuto a lungo ai margini ma con un fuoco che sopravvive dentro di lui. Si sente grata, capisce che deve incanalare questa energia di rivalsa». Tutto il disco è una riflessione sulle sue origini, la sua realtà e la nuova cultura a cui ha dato origine. Un ruolo importante nella realizzazione di questo progetto è stato ricoperto dalla moglie del ventottenne Yannick, Rochelle Nembhard, qui accreditata come Rha! Rha!, cantante ma anche direttrice creativa e parte attiva nella creazione del film che accompagna il disco.
I suoni pop-punk del disco precedente sono spariti e al loro posto c’è un suono più scuro, ci sono Danny Brown (nel cui disco del 2016 “Atrocity Exhibition” Petite Noir era presente ) e Saul Williams, c’è un titolo come “Blowing Up the Congo”, il cui testo denuncia lo stupro del paese a opera delle multinazionali occidentali, c’è una produzione più complessa, meno immediata: questa oscurità, unita al suo spirito ribelle, fa di Petite Noir un artista unico all’interno del panorama della nuova musica africana.
«Come tutti, voglio essere visto col rispetto che merito. Imparare a chiedere rispetto fa parte della mia crescita e del raggiungimento dell’età adulta».
Siete pronti per ascoltare un disco di Otis Redding o di Arthur Conley, uno di quelli col sax, il basso pompato, le percussioni che conducono il treno sonoro e una voce che vi fa muovere la testa con un sorriso ebete stampato sul volto? Bene, Free Me, il disco d’esordio di JP Bimeni And The Black Belts è questo e noi, orfani di Charles Bradley, di Sharon Jones e di un certo suono Daptone e che reputiamo Leon Bridges un po’ troppo pop, non aspettavamo altro.
Originario del Benin, da cui dovette scappare durante la guerra civile scoppiata nel 1993, malgrado suo padre fosse un ufficiale e sua madre un membro della famiglia reale, Bimeni ottenne lo status di rifugiato politico, dopo essere sopravvissuto a ben tre tentativi di omicidio – l’ultimo dei quali messo in piedi da un medico che tentò di avvelenarlo nell’ospedale in Kenya dove JP era stato portato in seguito a una ferita da arma da fuoco. All’età di sedici potè infine mettersi in salvo e raggiungere un college nel Galles, con la possibilità di una vita migliore e di rendersi indipendente facendo musica.
Accompagnato dal combo funk The Black Belts, sei musicisti spagnoli, Bimeni ha realizzato lungo dieci canzoni quello che per gli amanti del soul e del R’n’B sarà l’album dell’anno: potente, gioioso, in alcuni episodi melanconico, terribilmente funky, cantato con una voce che dà i brividi.
Si balla con il crossover funk di “Honesty Is A Luxury”, “Same Man” incendia il dancefloor, “Madelaine” ci conquista con la sua immediatezza e la sua melodia assassina, mentre gli oltre cinque minuti di “I Miss You”, racconto di un amore finito, ci fanno sanguinare il cuore. Se non si fosse ancora capito, saremo più espliciti: “Free Me” è deep soul at his best, come solo chi ha sofferto può creare.
“Ora che te ne sei andata il tempo sembra non passare mai, proseguo da solo, giorno dopo giorno fino ad oggi, in qualche maniera tu sei ancora qui, una parte di te se n’è andata, mi sta uccidendo, non ce la faccio ad andare avanti. (…) Pagherei tutto l’oro del mondo per un momento solo tu e io”.