Joan of Arc: i pulzelli di Chicago

1984 è il nuovo album dell’imprevedibile band di Tim Kinsella

Joan of Arc
Disco
pop
Joan Of Arc
1984
Joyful Noise
2018

Quando George Orwell scrisse il suo romanzo più celebre, al fatale anno del titolo ne mancavano 35. Adesso, quasi simmetricamente, dal 1984 ne sono trascorsi 34. Possibile che – cervellotico com’è – Tim Kinsella sia stato affascinato dalla coincidenza numerica, dovendo attribuire significato al nuovo album della band di cui è indiscusso punto focale. O magari l’avrà suggestionato il carattere “orwelliano” del caso Cambridge Analytica. Vai a sapere…

Il precedente disco a nome Joan of Arc, per dire, uscì con intestazione allusiva – He’s Got the Whole This Land Is Your Land in His Hands  – il giorno dell’insediamento di Donald Trump. Già allora Kinsella scelse di abdicare al ruolo di protagonista, cedendolo all’appena reclutata Melina Ausikaitis, artista visiva e performer, oltre che cantante e chitarrista. In questa occasione i riflettori sono puntati più ancora su di lei: sovente, infatti, la sua voce è isolata al centro della scena (esemplare l’esasperato minimalismo di “Maine Guy”), miagolante (nell’astrale ambient dell’iniziale “Tiny Baby”) oppure prepotente (nel crescendo massimalista di “People Pleaser”), talvolta filtrata e moltiplicata dai marchingegni elettronici (fra le astratte geometrie di “Vertigo”), comunque impegnata a sciorinare un flusso di coscienza in cui ricordi d’infanzia si mescolano con effetto surreale ad acrobatiche prodezze sessuali nella casa di nonna. Ascolto niente affatto facile, dunque.

Non è una novità: fin dal principio, distante ormai 23 anni, Kinsella – proveniente dal circuito del punk “emotivo” – ha sfidato con attitudine indisponente il proprio pubblico con piroette stilistiche e brusche variazioni di rotta, divenendo così – soprattutto in patria – bersaglio prediletto della critica. A capo di una formazione dall’assetto variabile (ora un quintetto), ha costruito in questa maniera un percorso zigzagante, punteggiato da un’infinità di dischi (dovremmo stare a quota 23) dalla qualità inevitabilmente incostante. Insomma, se ha scelto quel nome per il gruppo, dev’essere stato per l’aspirazione a finire arso sul rogo. E tuttavia, se uno ha la pazienza di sintonizzarsi sulle strane musiche contenute in 1984, avrà modo di apprezzarne – se non altro – l’audacia. Qualcosa che sta fra i Talk Talk al massimo dell’introversione e lo Scott Walker più scontroso. Ad addolcire la pillola provvedono alcuni scorci psichedelici (il sognante strumentale “Psy-fi/Fantasy” o, all’epilogo, “Forever Jung” – che calembour! – dove Kinsella si riappropria del microfono per intonare una melodia senza parole), l’inopinato andamento (post) rock di “Vermont Girl” e una ballata quasi convenzionale qual è “Punk Kid”.

Il tipico oggetto d’arte da amare o detestare: vie di mezzo non ve ne sono.

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