Hobby Horse, lavoro di gruppo

Helm è il nuovo disco degli Hobby Horse (per Auand): la nostra intervista a Dan Kinzelman, Joe Rehmer e Stefano Tamborrino

Hobby Horse - Foto di Enrico Menichini
Hobby Horse - Foto di Enrico Menichini
Articolo
jazz

Abbiamo intervistato gli Hobby Horse in occasione del lancio del loro nuovo disco Helm (Auand).

C'è una bella differenza tra un gruppo e una band. Nel primo caso ci si riferisce a un'aggregazione variabile e provvisoria di musicisti che, per accidente, scelta o necessità, si ritrovano su un palco o in uno studio di registrazione; nel secondo a un'entità specifica, più o meno fluida, che lavora (o almeno dovrebbe lavorare) in profondità e in prospettiva, dentro e non attorno a concetti come suono, evoluzione e ricerca.

Otto anni di totale e perfetta simbiosi, quasi trecento concerti a referto («il primo in un negozio di vestiti, a Foligno, con la batteria montata tre minuti prima di iniziare»), trasferte, viaggi, prove e ancora prove: nessuna band è più band degli Hobby Horse. Trio delle meraviglie che con l'uscita di Helm, pubblicato dalla Auand in cd (e a breve disponibile anche in vinile grazie alla Rous Records), arriva a toccare quota sei dischi in carriera.

Confermando splendidamente la propria conclamata unicità. Dall'alto di un lavoro denso, profondo, ricchissimo di spunti e di dettagli, miracolosamente a fuoco nonostante lo spiazzante campionario di suoni e di atmosfere. Uno, cento, mille Hobby Horse. Tra schegge di elettronica impazzite, omaggi a Robert Wyatt, contorsioni, mutazioni, e venti minuti di minaccioso bordone piazzati in fondo a mo' di sentenza. Difficile circostanziare e descrivere; meglio farsi spiegare il tutto dai diretti interessati: Dan Kinzelman (sax tenore e clarinetto basso), Joe Rehmer (contrabbasso e basso elettrico) e Stefano Tamborrino (batteria e percussioni).

Partiamo dal fondo. Vale a dire dai venti e passa minuti di “Evidently Chickentown". Che si aprono con un'ossessiva pulsazione e i versi di John Cooper Clarke, il profeta del punk inglese, per poi incagliarsi in un loop oscuro e inquietante che accompagna l'attonito ascoltatore verso l'uscita. Come vi è venuta l'idea di chiudere il disco all'insegna della magniloquenza e dell'astrazione?

DAN KINZELMAN: «Strada facendo, una volta terminato il lavoro di selezione del materiale. La scaletta è stata l'ultima cosa alla quale abbiamo pensato, dopo che è emerso più chiaramente che stavamo realizzando una sorta di concept sul rapporto tra uomo e tecnologia. In tale contesto i venti minuti di “Evidently Chickentown” hanno una loro forza, una loro coerenza. Non ti nascondo che avevamo qualche timore all'inizio, che c'erano delle perplessità; e che più di una persona, ascoltando la scaletta definitiva in anteprima, ci aveva sconsigliato un azzardo simile. Ma ora siamo più che convinti di avere fatto la scelta giusta. Trovo che quei venti minuti di quiete e di apparente immobilità facciano da contrappeso alle tantissime cose che succedono prima. C'è un equilibrio complessivo nel procedere del disco».

STEFANO TAMBORRINO «La cosa curiosa è che l'ascoltatore percepisce delle variazioni anche se il brano è basato su un loop molto breve. Come se si trattasse di un qualcosa che si evolve dal punto di vista narrativo, che segue il filo logico di un percorso e arriva da qualche parte. Nulla si muove, eppure tutto sembra muoversi. Forse anche per questo non riesco a non ascoltarlo fino in fondo. Ma non è detto che ad altri faccia lo stesso effetto. Può annoiare o persino disturbare. Si può decidere di fermarsi dopo due minuti o dopo un quarto d'ora, di arrabbiarsi o di abbandonarsi al flusso. Diciamo che è uno spazio di libertà che abbiamo lasciato a chi ascolta, un qualcosa con il quale confrontarsi e trovare una propria dimensione, e di fronte al quale è difficile rimanere indifferenti».

Spoiler: nella versione in vinile di Helm il loop sarà analogico. Quindi a un certo punto bisognerà alzarsi dal divano e liberare la puntina del giradischi, che altrimenti continuerebbe a girare in eterno.

JOE REHMER «In questo caso l'interazione con il brano è obbligatoria. Non c'è via di scampo: prima o poi si è costretti a prendersi la responsabilità di far finire il disco. È un modo per richiamare l'attenzione, per coinvolgere. L'arte astratta è basata sul principio che bisogna attivarsi per recepirla. Meglio un ascoltatore perplesso o arrabbiato di un ascoltatore indifferente».

«Meglio un ascoltatore perplesso o arrabbiato di un ascoltatore indifferente».

DAN KINZELMAN: «Qualche tempo fa mi è capitato di uscire di casa per un paio di giorni dimenticandomi di fermare il giradischi. Il piatto ha continuato a girare e la puntina, che mi era costata anche parecchio, si è rovinata. Il concetto è quello del loop infinito: un brano che vive di vita propria indipendentemente dalla volontà di chi l'ha concepito e che solo chi lo ascolta può decidere di fermare».

Attivarsi, partecipare, decidere, coinvolgere, John Cooper Clarke, la rilettura di “Born Again Cretin” di Robert Wyatt: non è che avete fatto un disco politico?

DAN KINZELMAN: «Da un certo punto di vista sì. Magari non in maniera del tutto consapevole, perché, come ti dicevo, la visione è emersa solo dopo che ogni tessera è andata al suo posto. Ed è stato un lavoro lungo, difficile. Avevamo tantissimo materiale. Sarebbe bastato modificare anche leggermente alcuni passaggi per stravolgere il senso generale del disco. Però alla fine è venuto così. E dentro ci sono tante cose delle quali parliamo ogni giorno, riflessioni che nascono dall'osservazione del mondo che ci circonda. Il tema è la tecnologia. Nel suo rapporto con la libertà individuale, con la consapevolezza e la comprensione. La tecnologia e l'idea che potrebbe arrivare un momento in cui gli esiti del progresso non saranno più prevedibili dall'uomo e sfuggiranno al nostro controllo, la cosiddetta singolarità tecnologica».

«Helm è allo stesso tempo un manuale pratico di resistenza e un messaggio di speranza».

«Qual è il nostro destino? Diventare schiavi dei nuovi padroni? Possiamo difenderci da forze così totalizzanti? Helm è allo stesso tempo un manuale pratico di resistenza e un messaggio di speranza».

Resta centrale nel vostro lavoro il controllo totale della produzione, dal primo all'ultimo passaggio.

DAN KINZELMAN: «Non dipendere da uno studio o da un fonico ha numerosi vantaggi. Possiamo prenderci tutto il tempo che ci serve per lavorare sulle intuizioni, sui ritagli. Per tornare su brani che avevamo lasciato da parte e che nel frattempo, cambiando il contesto intorno a loro, sono a loro volta diventati qualcosa di diverso. “Helm”, per esempio, il pezzo che apre il disco, è nato durante una session di due anni fa, in cui c'eravamo solo io e Joe; “Born Again Cretin” di Wyatt, invece, è una canzone che suonavamo dal vivo da una vita ma che non avevamo mai inciso perché non c'era lo spazio adeguato nel quale inserirla. Non tutto quello che facciamo funziona, ovviamente. Ma anche questo fa parte del processo di selezione naturale che porta alla nascita di un disco: solo le idee forti sopravvivono all'evoluzione della specie.

Helm - Hobby Horse

STEFANO TAMBORRINO «Nel nostro caso non farebbe alcuna differenza passare più o meno tempo in uno studio. Anche se avessimo un budget illimitato o ci fosse offerta l'occasione di lavorare per una settimana o due, cambierebbe poco. La differenza la fa la possibilità di prendere appunti, di ripartire da zero se necessario, di ragionare sul materiale, di decidere cosa tenere e cosa tagliare. “Salsa Caliente” è un brano manifesto in questo senso. È nato in un modo, lo abbiamo suonato dal vivo anche con il sestetto Ghost Horse, poi è cambiato e infine è diventato quello che potete ascoltare sul disco.

DAN KINZELMAN: «Il montaggio finale di “Salsa Caliente” è opera di Joe. Io non suono nemmeno una nota. Ricordo che quando stavamo registrando Stefano si è messo a smanettare con una tastierina giocattolo e ha tirato fuori un suono assurdo. È stato un momento di autentica gioia, come se avessimo trovato qualcosa che non sapevamo nemmeno di stare cercando. Ero talmente felice che ho smesso di suonare e mi sono messo ad ascoltare quello che facevano loro. Ecco, in questo c'è un po' tutto il senso del nostro lavoro: la gioia della scoperta, il procedere per tentativi e il coraggio di rischiare. È una ricerca che non ha mai fine. Anche in questo disco abbiamo adottato soluzioni che non avevamo mai adottato prima, sia strumentali che tecniche. Rischiamo ogni giorno, e ogni giorno ci spingiamo un po' più in là. Divertendoci. Sempre. Perché l'aspetto giocoso del fare musica insieme è fondamentale».

Altri elementi centrali nella vostra poetica sono il ricorso al canto e l'utilizzo della parola come elemento musicale. “The Go Round”, che avete scritto a otto mani con Alessandro Bosetti, compositore, manipolatore e sperimentatore, è forse l'esempio più calzante.

JOE REHMER «E dire che non sapevamo più come uscire dal vicolo cieco di “The Go Round”. Eravamo bloccati e senza idee. Allora abbiamo mandato il brano ad Alessandro chiedendogli di scrivere qualcosa per noi. Nel giro di un'ora e mezza ci ha risposto proponendoci addirittura tre soluzioni diverse».

DAN KINZELMAN: «Alessandro è un artista fantastico. Il modo in cui utilizza le parole come cellule melodiche e ritmiche è davvero unico. Rimasi folgorato quattro anni fa quando per la prima volta suonammo con lui a Berlino, tanto che poi ho partecipato anche a un suo workshop. “Squirrels Are Not Your Friends”, il pezzo che apre Rocketdine, il nostro penultimo disco, è dedicato a lui e al modo in cui lavora sulla voce».

JOE REHMER «La voce è un canale di comunicazione immediato, è il veicolo musicale più primitivo e ancestrale. Ricorrere al canto o inserire dei frammenti di parlato all'inizio era un gioco. Poi abbiamo capito che aiuta chi ascolta a entrare nel nostro mondo. E non si tratta di compiacere nessuno o di facilitare le cose, ma semplicemente di lasciare delle porte aperte alle nostre spalle, in modo che sia più facile seguirci anche nelle deviazioni più spericolate. E poi ci piace far convivere elementi eterogenei e all'apparenza inconciliabili in uno stesso brano o in uno stesso disco, trovare delle connessioni dove sembra che di connessioni non ce ne possano essere. Fa parte di quel percorso di azzardo e di scoperta di cui parlavamo prima».

DAN KINZELMAN: «Crearsi dei problemi, tentare di risolverli in tempo reale con i mezzi a disposizione e nel processo che porta da un problema alla sua soluzione cercare la bellezza. In fondo è tutto qui».

Domanda sciocca solo all'apparenza: quanto vi sentite di appartenere a quell'universo di musiche e di esperienze riconducibili all'ambito jazz?

STEFANO TAMBORRINO «Pochissimo e allo stesso tempo tantissimo, perché ormai jazz vuol dire tutto e niente. Se parliamo di prassi, ad esempio avere swing quando suoni la batteria, non mi sento per niente jazz. Se parliamo di libertà, di anarchia, allora sono totalmente jazz».

«Se parliamo di prassi, ad esempio avere swing quando suoni la batteria, non mi sento per niente jazz. Se parliamo di libertà, di anarchia, allora sono totalmente jazz».

DAN KINZELMAN: «Il jazz mi interessa come approccio e come processo, non come stile o linguaggio. Ascolto di tutto, anche il jazz con la J” maiuscola, sono curioso e onnivoro. Ma anche quando mi spingo indietro nel tempo, mi accorgo che quello che cerco è il senso del rischio, del pericolo. Non mi interessa riproporre vecchi stilemi e rifare cose già fatte. Se fossi uno scienziato non mi metterei mai a scrivere la teoria della relatività generale perché a quella ci ha già pensato Einstein».

Chiusura di rito: idee, progetti, appuntamenti?

JOE REHMER «In questi giorni saremo in tour negli Stati Uniti. A Miami, in Florida, e poi in giro per il Midwest. Il 5 febbraio invece saremo a Prato con il sestetto Ghost Horse, al Teatro Metastasio, ospiti del festival Met Jazz. Poi a marzo di nuovo in tour con il trio. Il tutto mentre stiamo già lavorando al prossimo disco, che sarà molto diverso da Helm».

Hobby Horse, Helm
Foto di Enrico Menichini

 

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