Umbria Jazz Winter, da Monk al funk
Il nuovo progetto di Jason Moran dedicato a Monk e gli Young Philadelphians di Marc Ribot per Umbria Jazz Winter
Un bel traguardo – venticinque anni – quello raggiunto da Umbria Jazz Winter, nata da una costola dell’omonimo appuntamento che si svolge, sempre in terra umbra, durante l’estate. A partire dalla prima edizione si è immediatamente caratterizzata grazie al patrimonio artistico e storico della città di Orvieto che ospita questa manifestazione a cavallo del Capodanno.
Cinque giornate (dal 28 dicembre al primo giorno del nuovo anno) dense di appuntamenti – Umbria Jazz Winter ha ingranato al solito una marcia a ritmi serrati – con diverse proposte che si sono rivelate in alcuni casi particolarmente interessanti per gli appassionati. Innanzitutto non passino inosservati la fenomenale vocalità di Jazzmeia Horn – un nome da tener d’occhio, subito protagonista della prima parte del concerto serale del 28, laddove la seconda ha visto Gino Paoli e Danilo Rea proporre un viaggio nella canzone italiana, ospite d’eccezione Flavio Boltro – né il deliziosissimo omaggio a Joni Mitchell offerto da Maria Pia De Vito o l’ironico sound de The Licaones, con Mauro Ottolini e Francesco Bearzatti in equilibrio tra blues, funky e mille altri ingredienti sonori.
La collaudata formula che consente agli artisti di fermarsi a Orvieto per qualche giorno e di proporsi in diverse formazioni ha poi portato anche quest’anno buoni frutti. Grazie ai quali, per esempio, si sono potuti ascoltare la stessa Maria Pia De Vito nel nuovo progetto transculturale intitolato Core/Coração – un incontro tra la sua Napoli e il lontano Brasile – oppure l’intramontabile Trio di Roma, i cui componenti (Danilo Rea, Enzo Pietropaoli e Roberto Gatto) già suonavano in altri gruppi inclusi nella programmazione del festival.
Una intensa scaletta, su cui merita soffermarsi, è stata quella di venerdì 29 dicembre, con la presenza di due degli artisti stranieri di maggiore spicco in questa edizione 2017-18, ovvero Jason Moran e Marc Ribot. La giornata si è aperta in chiave più sperimentale col trio di Ribot ed è culminata nel concerto serale che ha visto succedersi il tributo di Moran a Thelonius Monk, nel centenario della nascita di questo straordinario pianista statunitense, e la performance dello stesso Ribot insieme ai suoi Young Philadelphians.
Su quest’ultimo è stato detto che è riduttivo definirlo un chitarrista, avendo egli letteralmente creato col suo strumento un suono nuovo (quasi come proprio Monk ha fatto col pianoforte). Sicuramente il concerto nell’intima cornice del Museo Emilio Greco, insieme a due esponenti di lungo corso quali il contrabbassista Henry Grimes e il batterista Chad Taylor, ha dato il senso vivo della ricerca, con una capacità non indifferente di partire da una esplorazione dello spettro sonoro per poi crescere fino a intensità di forte impatto emotivo, ipnotizzando il pubblico e portandolo per mano nei meandri di una improvvisazione estremamente flessibile, pronta a evocare anche la musica di Albert Ayler, di cui Grimes fu partner negli anni Sessanta.
Di tutt’altro stampo la proposta serale che ancora Marc Ribot ha portato sulla scena del Teatro Mancinelli, insieme a The Young Philadelphians (tra le cui fila vanno sottolineate sia la presenza di un trio d’archi che quella dell’eccezionale bassista Jamaladeen Tacuma): la sovrastante mirror ball era il simbolo più appariscente di un percorso musicale che ondeggiava tra la disco music e il soul degli anni settanta, ripensato secondo le suggestioni del Prime Time di Ornette Coleman, ma con l’intento di arrivare a lambire un suono decisamente punk-funk. Performance abbastanza singolare, vista anche l’età attempata del pubblico in teatro, che comunque ha segnato un vistoso cambio di direzione rispetto alla prima parte del concerto, quella dedicata a Thelonius Monk. Va subito dato atto a Jason Moran – artefice di In my mind: Monk at Town Hall, 1959, presentato per la prima volta in Italia – delle sue altissime qualità pianistiche e improvvisative, quanto mai appropriate per una simile impresa, nella quale la rilettura della musica del grande jazzista americano è stata proposta insieme a una nutrita band di eccellenti strumentisti.
Lavoro realizzato con estrema accuratezza, avvalendosi anche del recupero di immagini e audio (con la voce dello stesso Monk che conversava con l’arrangiatore Hall Overton), che sono state proposte al pubblico orvietano, spunto per una performance musicale che complessivamente è riuscita ad andare oltre alla mera riproposizione del famoso concerto del febbraio ’59. Ma l’operazione ha evidenziato anche una certa macchinosità, tra esecuzioni in cuffia e senza (immaginabile il super lavoro per i tecnici audio del festival), significative pause della musica per ascoltare la voce di Monk e – last but not least – una durata complessiva che ha superato i 100 minuti, forse un po’ troppo. Soprattutto in vista della seconda parte del concerto, quella con Ribot.
In realtà la situazione si è ripetuta in tutte le proposte serali del festival, sempre articolate in due ampie parti: stare compostamente seduti nel Teatro Mancinelli dalle 21 a ben oltre la mezzanotte, è un’aspettativa più appropriata per un melodramma (rigorosamente in due atti) che per un evento di un festival jazz. Il successo, sia in termini di turismo cittadino che in quelli di affluenza ai concerti (gran parte dei quali sold out), potrebbe consentire – questo il grande vantaggio che Orvieto offre – una programmazione molto più flessibile, anche più aperta alle realtà nazionali e internazionali del jazz che non sempre riescono ad arrivare al pubblico del nostro paese. Pensare di tenersi "al passo coi tempi" seguendo strane esigenze di marketing – compresa quella del doppio concerto – rischia di tradire proprio la storia dei venticinque anni di Umbria Jazz Winter. Quelli che sono stati testimoniati dalla bella retrospettiva fotografica ospitata all’interno del Palazzo dei Sette: uno sguardo ai nomi e subito si capisce di cosa stiamo parlando.
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