Per il documentario su John Coltrane Chasing Trane, disponibile anche su Netflix da qualche giorno, l'occasione era due volte ghiotta. Tanto per cominciare perché a quasi trent'anni dall'ora scarsa di The World According to John Coltrane, uscito nell'ormai preistorico 1990, di un lavoro approfondito e strutturato, di un ritratto definitivo dell'artista e dell'uomo, se ne sentiva il bisogno. E poi perché il crisma dell'ufficialità, con tanto di placet degli eredi sventolato in fase di lancio, garantiva al regista John Scheinfeld, lo stesso di Who Is Harry Nilsson? e The U.S. vs. John Lennon, l'accesso a materiale inedito e di primissima mano, ai filmati girati in famiglia e a fotografie mai viste.
Doppia occasione, quadruplo disappunto. Su Chasing Trane ci sono talmente tante cose da dire in negativo che si fa persino fatica a decidere da dove partire.
Scelte più che discutibili, oltraggiose omissioni, pesanti cadute di stile: il campionario è orribilmente vasto e diversificato. A partire dai primi due minuti di frasi fatte e retorica in libertà, con pianeti e galassie da opuscolo new age a fare da sgangherato sfondo. Nulla comunque in confronto ai successivi strafalcioni: l'assenza totale di qualsiasi riferimento a Eric Dolphy, che non viene mai citato e che compare solo furtivamente e per una manciata di secondi; il minuto scarso concesso a McCoy Tyner, vergognosamente relegato al ruolo di fugace comparsa; l'imperdonabile decisione di rinunciare a fonti privilegiate come Pharoah Sanders (ultimo rimasto del secondo quintetto di Coltrane), Archie Shepp (molto più di un figlio musicale e in studio non solo per Ascension ma anche per A Love Supreme) e Roy Haynes (alla batteria nel quartetto di Monk ai tempi del Five Spot e al quale più di una volta, tra il 1961 e il 1965, toccò il compito di rimpiazzare Elvin Jones).
Su Chasing Trane ci sono talmente tante cose da dire in negativo che si fa persino fatica a decidere da dove partire.
E ancora: lo spazio elargito a piene mani a John Densmore, batterista dei Doors, Carlos Santana, Wynton Marsalis e Bill Clinton (che per fortuna lascia a casa il sassofono); il mancato utilizzo di frammenti audio tratti da interviste fatte a Coltrane, fantasiosamente doppiato da Denzel Washington (un nome da schiaffare sulla locandina); le assurde e interminabili sequenze che vedono protagonista un collezionista di cimeli giapponese; il racconto del giorno del funerale, nella St. Peter Lutheran Church di New York, il 21 luglio del 1967, non accompagnato dai brani suonati all'inizio e alla fine della cerimonia dal quartetto di Albert Ayler e da quello di Ornette Coleman.
Ma soprattutto: i tre-minuti-tre con i quali viene liquidata l'ultima parte della carriera di Coltrane, con l'attivista e filosofo Cornel West, fino a quel momento una delle presenze più simpaticamente stimolanti, che senza ritegno si premura di farci sapere che sì, la musica di quel periodo va rispettata, ma che francamente lui non ne capisce il senso e non riesce ad ascoltarla.
Che dire? Il fatto che ci sia di mezzo Wynton Marsalis fa propendere per l'ipotesi del dolo. E se da un lato fa piacere constatare che dischi come Interstellar Space suonino ancora così attualmente problematici e rivoluzionari, dall'altro è a dir poco avvilente trovarsi a fare i conti con l'ennesimo tentativo di rimpicciolire (e normalizzare) il gigante Coltrane. Mondato dal peccato capitale di essersi fatto corrompere dal free e ridotto a una sorta di genio pacioso tutto amore per il prossimo e fede nel Signore. Certo, restano i commoventi filmati girati in famiglia, alcuni scatti meravigliosi (bellissimi quelli del tour giapponese del '66), le sequenze in studio, i live, i contributi sinceri di Wayne Shorter, Reggie Workman, Jimmy Heath, Benny Golson e Sonny Rollins, ma non bastano per riscattare la pellicola.