I Fleet Foxes sotto le stelle

Dopo sei anni di assenza la band di Seattle dal vivo a Ferrara

Foto © Luca Gavagna
Foto © Luca Gavagna
Recensione
pop
Ferrara Sotto le Stelle Ferrara
03 Luglio 2017

Pubblico delle grandi occasioni (gli organizzatori parlano di millecinquecento spettatori, ed è plausibile), con larga presenza di spettatori stranieri, per il ritorno in Italia della band di Seattle: il palco è sistemato all’ombra del Castello Estense, il colpo d’occhio è di quelli che tolgono il fiato e le stelle ci sono davvero – ma ci pensano le zanzare, scatenate e voracissime, a far tornare i presenti a occupazioni più prosaiche (schiaffi, pacche e robuste grattate). Il compito di aprire la serata spetta a Hamilton Leithauser, leader dei Weekend con due album solisti nel carniere: armato di una dodici corde e accompagnato da altri musicisti, strappa applausi convinti con il suo pop dolce-amaro. Quarantacinque minuti di esibizione che scorrono via piacevolmente e che sono il giusto viatico per i Fleet Foxes: si parte subito con “I Am All That I Need / Arroyo seco / Thumbprint Scar”, “Cassius” e “Naiads, Cassadies”, tre brani tratti dal nuovo lavoro Crack-up (la nostra recensione si trova QUI), per poi passare a “Grown Ocean”, da Helplessness Blues, del 2011. Alla fine le canzoni saranno ventitré (inclusa una cover di “In the Morning” dei Bee Gees), con due bis, per un concerto che sfiora le due ore e mezza. Robin Pecknold, perfettamente a suo agio, racconta di un giro notturno in bicicletta per le vie deserte del ghetto di Ferrara e urla in italiano «buona fortuna per il tuo esame domani!» a una ragazza che, invece di dedicarsi a un ultimo ripasso, ha preferito accompagnare i suoi beniamini in giro per la città e vederli sul palco: non possiamo certo darle torto. C’è spazio per “Mykonos”, “Blue Ridge Mountains”, “Helplessness Blues”, Ragged Wood”, “Fool’s Errand” (l’instant classic tratto da Crack-up), “The Shrine / An Argument” (canzone killer) e “White winter hymnal”, con tanto di coro del pubblico. Il gruppo saluta ma dopo poco Pecknold torna sul palco con la sua chitarra acustica: mi ritrovo vicino a una coppia che sventola una bandiera già vista ma che non sono in grado di riconoscere: chiedo da dove arrivino e mi rispondono che sono di Seattle. La bandiera è quella dello stato di Washington e loro sono in vacanza a Ferrara: non credevano ai loro occhi quando hanno visto il manifesto del concerto dei loro concittadini («Incredibile, non li vedevamo dal vivo da sei anni»: noi invece tutti i giorni…). Pecknold vede la bandiera e dedica ai due ragazzi “Oliver James”, seguita da “Tiger Mountain Peasant Song”, cantate con quella voce meravigliosa che si ritrova; gli altri del gruppo lo raggiungono per i tre brani finali, l’ultimo dei quali è “Crack-up”. Sei anni di silenzio, con il rischio concreto dello scioglimento, sei anni che sono serviti ai componenti del gruppo per rimettere insieme i cocci delle loro carriere: non è più il tempo di Helplessness Blues e del fulminante concerto al Teatro Smeraldo di Milano (ne avevamo parlato QUI), loro sono cambiati e lo siamo anche noi. Non ho più l’illusione che la bellezza possa salvare il mondo ma per una sera è riuscita se non altro ad alleggerire il basto che grava sulle nostre schiene stanche. I Fleet Foxes torneranno in Italia il 10 novembre per un concerto al Fabrique di Milano.

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