Il mestiere della psichedelia

Flaming Lips a Milano per il nuovo tour, fra elettronica, unicorni, bulbi oculari e qualche pagliuzza

Foto © Alcatraz
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Recensione
pop
Barley Arts Milano
30 Gennaio 2017

Sarà una questione di comunità, probabilmente. O, più banalmente, un’altra riprova della resilienza del vecchio adagio per cui chi si somiglia si piglia. Però solo un concerto dei Flaming Lips potrebbe iniziare con una serie di convenevoli e strette di mano fra il gruppo e un tizio in platea vestito da Babbo Natale – accompagnato da un socio con un vistoso copricapo a forma di pesce – e sembrare la cosa più normale del mondo. Chi li ha incrociati negli anni lo sa, d’altronde: nulla in giro si avvicina alla follia di un concerto del gruppo di Oklahoma City. Non più i dischi, dicono esagerando le malelingue, malgrado i giudizi sul recentissimo Oczy Mlody siano nel bene o nel male polarizzati come in poche altre occasioni. Altra l’unanimità riguardo un live rinnovato senza troppi stravolgimenti, fin dal consueto diluvio iniziale di coriandoli e palloncini sulla platea. Nuovi semmai sono i gonfiabili a ballare intorno al cantante Wayne Coyne e soci, che siano animali, un sole, un cartello con la scritta “Fuck Yeah Milan” o dei bulbi oculari, mezzo tributo ai Residents che forse solo i Lips potrebbero permettersi. Resiste inevitabilmente la solita bolla di plastica trasparente usata dal frontman per le passeggiate sul pubblico, artifizio scenico di corredo a una cover di "Space Oddity" che lo stesso gruppo ammette di non riuscire a sfilare dalla scaletta. Ma altra è la pensata destinata a marchiare il tour, genialmente lapalissiana anche per chi conosce bene i soggetti: entra in scaletta la nuova "There Should Be Unicorns" e lo fa con Coyne a cantarla a cavallo – ovvio, no? – di un unicorno sul quale si concede un giro della sala. Psichedelia plastica spalmata su psichedelia sonora, e la seconda vede l’ago pendere sempre più verso Steven Drozd, tastierista e arrangiatore umanamente complesso quanto musicalmente di altra categoria. Sempre più elettronica e sempre meno chitarre, a vederlo governare una pasta qua velenosamente limacciosa ("Feeling Yourself Disintegrate") e qua rarefatta, come in una scheletrica e delicatissima "Waiting for a Superman". Poi, certo, non tutto è rose e fiori: "Do You Realize?" meritava forse qualche coccola in più, il gruppo ormai dal format del greatest hits non si discosta e comincia a pesare l’appassimento di un Coyne a cui ormai per scaldare la voce – persino inesistente in "Race for the Prize" - serve un quarto d’ora e più. Minuzie, travolte dalla grandiosità della cornice. E, in genere, il problema con i gruppi in giro da 35 anni non è esattamente quello della pagliuzza.

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