Max era Max, "il più bravo" che mai
Al Folkclub di Torino, Manfredi strappa applausi ed emozioni
Recensione
pop
Chissà se Max non sia un po' stufo di sentirsi chiamare "il più bravo", tirando in ballo quell'altro cantautore genovese che sicuramente quando lo disse lo pensava davvero. Eppure oggi in Italia si contano forse sulle dita di una mano gli artisti che dopo più di quindici anni di carriera continuano a impastare contemporaneamente grandi dischi e splendidi concerti. Il Folkclub di Torino - tappa della sua tournée per il recente "Luna persa" - è la dimensione perfetta in cui apprezzarne l'arte: sincero, attento, raccolto. Dopo l'esibizione del giovane Silvano Geusa, tra i vincitori del Greeenage Festival 2008 (voce e chitarra con l'America di Young nel cuore e l'Inghilterra di Drake nel cassetto), è il turno di Max: accompagnato da Marco Spiccio al pianoforte elettrico, Federico Bagnasco al contrabbasso e Fabrizio Ugas alle chitarre, Manfredi spinge sul pedale dell'emozione gestendo i suoi brani da attore consumato. Sia quelli storici ("Azulejos", "La fiera della Maddalena" applauditissima, la frenetica "Ballata degli otto topi", "Tabarca") che i più recenti (la densa "Aprile", "Kukuwok" e il suo mondo western di provincia, l'incazzata "L'ora del dilettante") prendono direzioni incontrollabili, continui rimbalzi tra la risata e la commozione. Due sono le cose che stupiscono di più: l'impossibilità del distinguere brani dai precedenti album rispetto alle ultime produzioni, nonostante l'evidente crescita artistica, grazie ad un fenomenale amalgama, e la strettissima connessione tra musica e testi, letteralmente scolpiti nelle associazioni del pensiero laterale e delle emozioni più sincere. La sua geografia artistica - fatta di topi, pietre preziose, sogni, viaggi e oggetti - tocca corde di umanità con forza inaudita; tanto che al "Regno delle fate", vero recente capolavoro della canzone italiana tutta, più di qualcuno in sala sfodera occhi lucidi senza paura.
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