Inaugurare una stagione lirica con "I masnadieri" di Verdi, opera compresa in quella sorta di limbo che sta fra "Ernani" e "Rigoletto", è un gesto forte. Ma è anche una operazione rischiosa, che regge soltanto in presenza di un cast adeguato. A Bologna non è affatto mancato.
Roberto Frontali sta diventando ormai il baritono verdiano di riferimento; la sua presenza era dunque quasi obbligata. Fattasi la voce più asciutta, trova nello stile declamato il suo terreno ideale, grazie anche alle ben note capacità attoriali, che in personaggi forti come il diabolico macchinatore della vicenda raddoppiano col gesto l'efficacia delle intenzioni vocali.
Fiorenza Cedolins è una delle migliori acquisizioni dell'odierno teatro melodrammatico, particolarmente versata in ruoli impervi come quelli sopranili del giovane Verdi, equamente spartiti fra un residuo virtuosismo belcantistico ed una non meno virtuosistica tensione verso gli accenti drammatici: tanto è a suo agio con i gorgheggi che Verdi affidò all'usignolo dell'epoca, Jenny Lind, quanto con lo straziante patetismo delle tante frasi spianatamente cantabili che costellano la partitura.
Giacomo Prestìa valorizza con la sua voce calda, morbida e potente insieme (la più fascinosa, su questo palcoscenico), una parte marginale sulla carta, ma che ebbe come primo interprete in Luigi Lablache il maggior basso dell'epoca. Sentirlo cantare è un vero piacere, un piacere d'altri tempi.
Nel ruolo del cosiddetto "fratello buono", ma che a ben vedere per efferatezze da terrorista ante litteram non stava secondo al suo germano, attendevamo Fabio Sartori; un'improvvisa indisposizione ha promosso invece a poche ore dal debutto il tenore albanese Giuseppe Gipali, previsto in seconda compagnia: voce apparentemente esile, regge nondimeno con proprietà anche i passi più accesi. Buona la dizione, bella la linea del canto, sicura l'intonazione: ce n'è quanto basta per attendersi una carriera di pregio. E sin da ora va tutta a suo onore la scelta di puntare l'esecuzione più sulla liricità della parte che non sulle tinte eroiche, evitando così certe sbavature stilistiche in cui incapparono in quest'opera alcuni degli interpreti del secolo scorso.
Era questa, del resto, la chiave di lettura ideata dallo stesso Daniele Gatti, molto attenta a valorizzare il belcantismo residuo in tale partitura (ce n'è ben più di quanto si sarebbe portati a credere), piuttosto che a calcarne gli accenti drammatici: ne erano prova le insistite fluttuazioni agogiche (rubati ritmici) e dinamiche (sorta di "messe di voce" orchestrali) cui assoggettava gli accompagnamenti al canto, con livelli sonori tenuti sempre al di sotto della linea di conflitto con le voci, mai coperte, mai prevaricate. Di certo una delle migliori prestazioni offerte in questo teatro dal suo direttore stabile.
Allestimento importato dal Covent Garden, che si basa su un impanto scenico essenzialissimo (Paul Brown), incentrato su una paratìa di vetrate variamente ridisegnata da giochi di luce, ruotata su sé stessa ad ogni cambio di quadro, e destinata a corrompersi visivamente col procedere degli eventi verso l'abisso. Pochi e scabri oggetti scenici (un tavolo, un albero, un monumento funerario) delineano poi i mutevoli passaggi da interni a esterni, meglio definiti con accorti effetti visivi (le luci della festa, il colore della pioggia, l'incendio di Praga sullo sfondo). In tale suggestivo contesto scenico, l'invenzione registica (Elijah Moshinsky) si muove con discrezione, senza lampi di genio, ma procurando di non far mancare nulla alle necessità narrative del dramma.
Note: Allestimento Royal Opera House di Londra
Interpreti: Fiorenza Cedolins/Susan Neves, Fabio Sartori/Giuseppe Gipali, Roberto Frontali/Giovanni Meoni, Giacomo Prestia/Marco Spotti, Massimiliano Tonsini, Alessandro Cosentino
Regia: Elijah Moshinsky ripresa da Andrew Sinclair
Scene: Paul Brown
Costumi: Paul Brown
Orchestra: Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Direttore: Daniele Gatti
Coro: Coro del Teatro Comunale di Bologna
Maestro Coro: Marcel Seminara