Non bisogna dimenticare mai che "Die Zauberflöte" è nata come Singspiel, una semplice commedia con numeri musicali inseriti, che doveva assecondare i gusti del pubblico d'un teatrino di periferia, mescolando abilmente le meraviglie a buon mercato della Zauberoper, gli ingenui effetti speciali della Maschinenkömodie e i sempre graditi lazzi della commedia popolare viennese. Eppure vi si nasconde un significato misterioso e profondo, "metafisico", che deve essere scoperto gradualmente, come punto d'arrivo d'un percorso non rettilineo, tortuoso e anche contraddittorio. Si deve stare attenti a non invertire i rapporti tra i due piani dell'opera, a non puntare i riflettori sull'allegoria morale e respingere tutto il resto sullo sfondo. Ma molti la pensano esattamente al contrario e considerano l'aspetto popolare e fiabesco un residuo di cui vergognarsi un po': a chi scrive non era mai capitato d'incontare un assertore di questo punto di vista così convinto come Pier Luigi Pizzi. La sua azione è stata radicale e impietosa: non è facile eliminare così radicalmente la vis teatrale apparentemente insopprimibile del "Flauto magico", cancellare così accuratamente ogni elemento fiabesco dal serpente o dai tre genietti o dagli animali feroci che vengono incantati dal suono del flauto, mettere la sordina dall'inizio alla fine alla comicità e alla sensuale gioia di vivere di Papageno. Soprattutto s'avverte crudelmente la totale ignoranza dell'arte di narrare, che è la prima cosa che dovrebbe possedere chiunque ardisca accostarsi a una favola: ogni scena è quasi immobilizzata in un quadro vivente, le continue chiusure del sipario per i cambi di scena isolano un quadro dall'altro. Ma anche l'aspetto simbolico, più o meno massonico, non è molto curato: perché il regno della Regina della Notte è cosparso di colonne e tempietti classici esattamente come il regno solare di Sarastro? E perché in molte scene appare lo stesso alberello contorto adornato da grandi foglie dorate? L'impressione è che Pizzi badi soltanto all'eleganza formale: ma anche in questo dobbiamo accontentarci della fin troppo facile eleganza d'un allestimento bianco-che-più-bianco-non-si-può, appena ravvivato da alcuni tocchi d'oro e d'argento. Molto colorati invece alcuni costumi. Ma Gianluigi Gelmetti dirige con grande cura e amore (però si fa un po' contagiare da Pizzi in alcuni tempi lenti e nella cautela con cui affronta gli aspetti comici) e l'orchestra smentisce ancora una volta la sua pessima fama, sebbene non sia ancora perfetta. Due cast si alternano nelle varie recite: li abbiamo sentiti entrambi ed entrambi, sommati i pro e i contro, sono sembrati di livello adeguato. In entrambe le recite la bravissima e impeccabile Eva Mei dava vita a una delicata Pamina e Cartsen Stabell era un Sarastro non troppo autorevole, mentre cambiavano gli altri. Al positivo debutto di Giuseppe Filianoti nel ruolo di Tamino succedeva l'inappuntabile ma poco seducente Robert Lee. Come Regina della Notte Desiré Rancatore è apparsa esile e non impeccabile nelle colorature mentre Elena Mosuc era più imperiosa e sicura. Detlef Roth era un rodato Papageno, misurato e allo stesso tempo divertente, ma Massimiliano Gagliardo (un altro positivo debutto) non era da meno. Da segnalare anche, sebbene fosse castigata dalla regia, la disinvolta e piccante Papagena di Monica Gonzalez, l'Oratore di Filippo Bettoschi, le tre Dame di Rossella Ragatzu, Giacinta Nicotra e Milena Storti. Non condivisibile invece l'ammirazione entusiastica tributata come al solito ai tre genietti del Tölzer Knabenchor, piuttosto gracchianti.
Note: nuovo all.
Interpreti: Stabell, Filianoti/Lee, Solari/Bettoschi, Rancatore/Mosuc, Mei/Bertagnolli, Ragatzu, Nicotra, Storti, Dell'Oste/Gonzalez, Roth/Gagliardo
Regia: Pierluigi Pizzi
Scene: Pierluigi Pizzi
Costumi: Pierluigi Pizzi
Orchestra: Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma
Direttore: Gianluigi Gelmetti
Coro: Coro del Teatro dell'Opera di Roma
Maestro Coro: Mario Giorgi