Martina Franca: la maturità di un Festival sperimentale

Reportage dal Festival della Valle d’Itria 2017

Recensione
classica

Per chi abbia seguito, anche solo a intermittenza, le vicende del Festival della Valle d’Itria che ogni estate, dal 1975, si celebra a Martina Franca come un rito di freschezza culturale, fantasia artistica e cordiale ospitalità dell’intera città pugliese, l’attuale fisionomia della manifestazione risulta una piacevole e rassicurante conferma degli intenti sperimentali, quasi laboratoriali, che furono all’origine delle scelte di Paolo Grassi e di Rodolfo Celletti, confermate nei decenni dalla conduzione artistica di Sergio Segalini e oggi di Alberto Triola.

Lo spirito di continuità è stato fin esplicitamente ribadito da un convegno di studi (28-29 luglio) attorno alla figura artistica, culturale e didattica di Rodolfo Celletti (1917-2004) nel centenario della nascita, chiamando a raccolta una dozzina di testimoni della sua biografia privata e professionale, sotto il coordinamento di Angelo Foletto, per tracciarne i confini dell’eredità, dentro e oltre il “suo” Festival.

Un’eredità prettamente sperimentale, si diceva, che non naviga più però “a vista”, come nelle prime stagioni, ma che ha raggiunto ormai una solida e matura consapevolezza, grazie proprio agli esiti di quei primi esperimenti fondativi. Quella che ad esempio fu in origine una vera “ricerca sul campo” condotta da Celletti alla riscoperta di tecniche e prassi canore antiche da recuperare nelle esecuzioni moderne è ormai oggi una cultura acquisita, divulgata a Martina Franca durante tutto l’anno attraverso una Accademia del Belcanto a lui intitolata, e altrove perseguita da iniziative simili, donde provengono i migliori interpreti “giovani” degli spettacoli (fondamentale quest’anno la collaborazione con l’Accademia del Maggio Musicale Fiorentino). Analogamente, la ricerca di partiture operistiche dimenticate da proporre come luogo della sperimentazione esecutiva è oggi assecondata dalla ricerca musicologica ufficiale, al punto che si può produrre proprio a Martina Franca la prima rappresentazione moderna di un titolo come “Margherita d’Anjou” avvalendosi della nuovissima edizione critica di Casa Ricordi, che sta pubblicando una ad una le opere di Meyerbeer. E proseguendo su tale linea, la dimensione sperimentale va ora estendendosi anche all’aspetto visivo degli spettacoli, con produzioni, per quanto discutibili, degne comunque di una ragionata e appassionata discussione. Se aggiungiamo infine che tra i punti forti di questo 43° Festival della Valle d’Itria ci sono stati i direttori d’orchestra, il quadro si chiude con felici auspici per il futuro.

Entrando nel dettaglio, Fabio Luisi (Direttore musicale del Festival) conferma la sua sintonia e passione per autori e titoli del romanticismo italiano (ché tale è anche il Meyerbeer di Margherita d’Anjou, esatto contemporaneo di Rossini), offrendoci un’esecuzione netta e compatta di tale partitura del genere semiserio che altalena di continuo fra la più limpida convenzione e i tentativi di superarla. Nelle difficili parti vocali, Luisi può avvalersi di artisti ben consapevoli sul piano stilistico: una menzione particolare al contralto Gaia Petrone, per la composta eleganza del suo canto, all’ottimo buffo Marco Filippo Romano e al tenore russo Anton Rositskiy, destinato a divenire un nuovo nome di riferimento nei cast rossiniani. Problematica invece la regia di Alessandro Talevi, che parte da presupposti quantomeno discutibili: che la dimensione semiseria sia «particolarmente ostica per gli ascoltatori moderni» (come se la vita di ognuno non fosse un continuo mescolarsi di tragedia e commedia) e che rappresentare un’opera secondo le coordinate storiche indicate dal libretto «non implica necessariamente un apprezzamento da parte del pubblico» (come se oggi il pubblico non sapesse più apprezzare film storici in costume). Una presunzione, appunto, che porta il regista a inscenare una sfilata di moda o un rave party mentre i personaggi parlano di guerre di successione dinastica e in orchestra squillano di continuo segnali militari. Non che il racconto visivo predisposto dal regista fosse insulso in sé, ché anzi emergevano di continuo idee originali, intelligenti, sin divertenti e coerenti fra loro; ma l’effetto complessivo era quello della visione di un bel film con l’audio sbagliato. Simili esperimenti di distacco e contrapposizione fra il dramma e la sua messa in scena possono trovare oggi una loro ragione estetica se rappresento un Rigoletto di Verdi noto a tutti, o finanche un Giulietta e Romeo sconosciutissimo di Zingarelli, dove lo spettatore sarebbe comunque in grado di valutare la distanza straniante della regia dal plot originale; ma applicata a una Margherita d’Anjou l’operazione non funziona.

Scaturito direttamente dal testo è invece l’allestimento di Stefania Bonfadelli (già soprano, anche a Martina Franca) per Un giorno di regno di Verdi, ambientato su un palcoscenico in cui si prova l’opera Il finto Stanislao (il titolo alternativo dell’opera stessa), senza tuttavia riuscire a tenere adeguatamente le fila del gioco metateatrale fino in fondo. Sul piano musicale, la palma va in questo caso al direttore d’orchestra Sesto Quatrini, applauditissimo e apprezzatissimo per piglio e rigore. Il baritono Vito Priante conferma la sua abilità di vocalista e attore. Bella rivelazione quella del soprano lituano Viktorija Miškunaité, finora attiva solo in patria, e del peruviano Iván Ayón Rivas, che sfoggia un fascinoso timbro da tenore lirico.

Proseguendo a ritroso nella ricchissima programmazione di questo 2017, la serata inaugurale del Festival era stata affidata a un titolo barocco, altro filone portante della manifestazione, sin dalle origini. L’Orlando furioso di Vivaldi ha goduto del sontuoso impianto scenografico della Fattoria Vittadini (la dinamica equipe milanese uscita dall’atelier di Teatro-Danza della Scuola “Paolo Grassi”), capace di attualizzare con immagini semplici e abbacinanti insieme il concetto dello stupore barocco (ricchi di fantasia i costumi di Giuseppe Palella). Fondamentale anche lo splendore strumentale dei Barocchisti diretti da Diego Fasolis. Il cast vocale era costruito attorno alla figura catalizzante del contralto Sonia Prina nel ruolo del protagonista, che a un timbro vocale purtroppo ormai povero di smalto e morbidezza supplisce con una tecnica da vocalista sempre invidiabile e una presenza scenica travolgente. Attorno a lei emergeva in particolare il soprano Lucia Cirillo, mentre i falsettisti Luigi Schifano e Konstantin Derri confermavano la fragilità conclamata di tale tipo di voce, tanto più in una rappresentazione all’aperto.

Attorno agli spettacoli “ufficiali” programmati nel cortile del Palazzo Ducale, le proposte del Festival si moltiplicano tradizionalmente ad ogni orario del giorno e della notte, dislocati in vari luoghi suggestivi. Da segnalare Le donne vendicate di Piccinni alla Masseria Luco: nella semplicità di un allestimento appoggiatosi al fascino architettonico del luogo, il regista Giorgio Sangati (formazione al Piccolo Teatro di Milano) ha dato una prova di vero teatro facendo recitare al meglio i quattro giovani cantanti, fra i quali un occhio di particolare attenzione andrà riservato al tenore Manuel Amati, formatosi all’Accademia del Maggio Musicale Fiorentino ma nativo proprio di Martina Franca.

Per i melomani a tempo pieno, altre occasioni venivano da un Gianni Schicchi con i giovani dell’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti” capitanati da Domenico Colaianni nella parte del protagonista (brillante l’idea registica di Davide Garattini che ambienta l’opera nel cortile interno di una casa di ringhiera), dalla realizzazione scenica del Ballo delle ingrate e altri madrigali monteverdiani diretti da Antonio Greco, dall’esecuzione dell’opera da salotto L’isola disabitata di Manuel García e molto altro ancora. Insomma, una vera abbuffata operistica, coronata dall’attribuzione del Premio Belcanto “Rodolfo Celletti” 2017 al tenore Ramón Vargas.

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