I bizantinismi dell’Otello veneziano
Saltata la prima per tensioni sindacali, il Teatro La Fenice inaugura la stagione con un grande Myung-Whun Chung sul podio per l’opera verdiana
Inaugurazione tormentata quella del Teatro La Fenice, l’ultima dell’attuale sovrintendente e direttore artistico Fortunato Ortombina che a giorni si insedierà ufficialmente al Teatro alla Scala. Tensioni sindacali hanno fatto saltare la prima, per la terza volta dopo il rientro dalla pausa estiva, e, rivendicazioni contrattuali a parte, continua a pesare l’incertezza legata alla nomina dei nuovi vertici del teatro lirico veneziano. E così l’inaugurazione slitta eccezionalmente alla pomeridiana del sabato togliendo inevitabilmente glamour all’evento (niente smoking e “black tie”) e rovinando la festa.
Almeno sul piano artistico, il sovrintendente uscente minimizza i rischi e va sul sicuro puntando, come già in numerose inaugurazioni della sua lunga stagione veneziana, sul direttore d’orchestra Myung-Whun Chung in accoppiata con un titolo verdiano, accoppiata rivelatasi finora sempre vincente. In realtà un Otello con il direttore coreano si era già ascoltato nel 2019 e prima ancora nel 2012 (con una puntata estiva all’aperto nel cortile di Palazzo Ducale per rinverdire i fasti del celebre Otello con Mario Del Monaco protagonista nel 1966). Il suo Otello più recente è soprattutto fatto di conferme: nessun capriccio direttoriale per “metterci la firma”, ma intimamente aderente alle ragioni musicali e drammaturgiche del Verdi più maturo. Ed è anche la conferma dell’affinità fra Chung e l’Orchestra del Teatro La Fenice, che sotto la sua direzione trova un suono compatto e plastico, perfettamente coerente con la natura sinfonica di questo Verdi, confermando la crescita e il potenziale dei complessi veneziani. Un patrimonio artistico, che, ci auguriamo, non vada disperso sotto una nuova direzione artistica sperabilmente non divisiva.
Nuovo è invece l’allestimento affidato al regista Fabio Ceresa, altra presenza piuttosto regolare nelle stagioni del teatro veneziano soprattutto nel ciclo vivaldiano al Teatro Malibran (ultimo il Bajazet visto lo scorso giugno). Abbandonato il cortile di Palazzo Ducale e i suoi eleganti motivi rinascimentali, lo scenografo Massimo Checchetto non se ne allontana troppo e guarda alla vicina Basilica di San Marco con i suoi elaborati bizantinismi architettonici riprendendone la ieraticità dorata nella scenografia a impianto fisso come anche Claudia Pernigotti nei costumi intonati all’epoca e Sergio Metalli nei fondali a mosaici animati della sua videografica, che sembrano talvolta un omaggio alla geniale inventiva di Emanuele Luzzati specialmente nel mare mosaicato in movimento della scena d’apertura. Inutile cercare una coerenza storica – ad esempio, con il Rinascimento reinventato da Shakespeare – fonte di ispirazione di tanto melodramma romantico: quel che conta è il grande spettacolo, con buona pace se la Venezia che vediamo sul palcoscenico del Teatro La Fenice ricorda fin troppo quella di una certa paccottiglia di princisbecco che inonda i luoghi storici della Venezia che fu o magari si ritrova rifatta in qualche angolo sperduto del mondo. Né si vede troppo la mano registica nella direzione attoriale, ben ancorata alle convenzioni del melodramma di un tempo, e con i movimenti molto spesso affidati alla pattuglia di mimi che, come demoni infernali, accompagnano la furia omicida di Otello, seguendo il disegno coreografico di Mattia Agatiello, e poco possono gli ieratici angeli bizantineggianti al seguito di Desdemona come l’inseparabile leone marciano al suo fianco. Questo stravagante Otello bizantin-marciano aggiunge davvero poco alla grande tradizione della penultima opera verdiana ma è rassicurante e fastoso (con moderazione) come può esserlo uno spettacolo d’altri tempi per non scontentare soprattutto chi l’opera se la immagina come teatro di belle immagini e di voci.
Le voci, appunto. Protagonista è Francesco Meli, al debutto scenico in Otello: niente blackfacing (non son più tempi), solide qualità vocali, timbro lucente ma poco bronzeo, fraseggio curato da sfiorare l’affettazione, non ha però l’enfasi tragica e lo spessore eroico dei grandi interpreti verdiani di uno dei ruoli più complessi della ricca galleria verdiana. Gli fa ombra l’autorevolissimo Jago di Luca Micheletti grazie alla grande presenza vocale, lo scandaglio psicologico e la disinvoltura attoriale (e si capisce anche perché Verdi e il librettista Boito pensassero a Jago come titolo più consono a questo lavoro). Quanto alla Desdemona di Karah Son, si apprezza soprattutto per il vigore vocale e una certa enfasi drammatica ma il fraseggio è piuttosto rigido e l’interpretazione approssimativa. Negli altri ruoli, si fa notare soprattutto l’Emilia di forte carattere di Anna Malavasi, più che lo sbiadito e vocalmente fragile Cassio di Francesco Marsiglia, mentre di efficiente professionalità sono le prove di Enrico Casari come Roderigo, Francesco Milanese come Lodovico, e William Corrò come Montano. Marcante l’apporto del Coro del Teatro La Fenice istruito da Alfonso Caiani, meno quello degli esili Piccoli Cantori Veneziani.
Teatro esaurito, come per tutte le altre recite in cartellone. Lunghi applausi per tutti e standing ovation per Chung.
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