Una intima apocalisse
I Godspeed You! Black Emperor a Torino, la sera del Bataclan
Recensione
pop
L’ultima volta che avevo sentito i Godspeed You! Black Emperor ero a Parigi, al Trianon. Una vecchia sala da operetta convertita in sala da concerti, nel diciottesimo arrondissement, che è facile collegare ai nomi di Mistinguett, al music-hall… Uno di quei misti parigini di belle époque e contemporaneità, un po’ come il Bataclan.
Venerdì sera ero invece a Venaria, al Teatro della Concordia, un teatrone della cintura torinese. Sono arrivato al concerto in netto ritardo (ero altrove, per un altro concerto). Ho parlamentato con l’uomo della security, mostrando la ricevuta del biglietto (alla cassa erano giustamente entrati a sentire), e sono entrato senza problemi. Il luogo era certo meno bello dei miei idealizzati ricordi parigini, ma la mole di suono – quella sì – era superiore, inarrivabile. Gli otto sul palco (due batterie, due bassi, tre chitarre, un violino) erano nel pieno del crescendo finale di un pezzo, e il muro di suono era quasi tangibile, per come faceva tremare il cemento armato.
I Godspeed You hanno la rara capacità di produrre una massa sonora inaudita stando praticamente immobili, senza mai spingere sugli strumenti: non li vedrete mai maltrattare una chitarra per ottenere un feedback. I chitarristi seduti e compìti, persino i batteristi in apparenza poco coinvolti fisicamente dalla propria musica: il corpo, così centrale in tutta la storia del rock, rimane al buio, cerca di farsi il più possibile neutrale. E così i membri del gruppo: nessuno spicca, nessuno comanda. Non interagiscono con il pubblico in nessun modo. Cosa che è ancora più strana, non sembrano neanche interagire fra loro: si cercano raramente con gli occhi o con i gesti. Ognuno pare suonare in un suo mondo privato, eppure – evidentemente – si devono ascoltare, perché l’interplay è perfetto. Sullo schermo scorrono immagini analogiche: sono prodotte da quattro proiettori tipo super8, dietro al mixer, e nei (rari) silenzi se ne coglie il ronzio, come era nei vecchi cinema. Trasmettono paesaggi insieme post-apocalittici e reali, zone industriali, immagini che scorrono da un treno, cantieri di notte. Si erano aperte (colgo dalle foto viste dopo) con la scritta "Hope", perfetta nel suggerire tutti i significati successivi, nell’ammantarli di quel senso di triste apocalisse (triste ma politica, e mai rassegnata) che attraversa tutto il repertorio della band. E che sembra calare anche sul pubblico, che segue rapito, nel buio totale, senza quasi muoversi.
Nella lunga sequenza finale scorrono immagini di palazzoni. Potrebbero essere una periferia torinese, parigina, ma a me ricordano molto, in quel momento, delle foto fatte Damasco diversi anni fa. La notizia di Parigi arriva solo mentre usciamo: facce stranite si avvicinano per informare, si capisce ancora poco, si sa ancora poco. Qualcuno dice «ero a Parigi la settimana scorsa», un altro «gli Eagles of Death Metal dovevano venire qui a dicembre…», e neanche si sa ancora che fine abbia fatto la band. È anche troppo facile fare collegamenti, tutti mentali, personali, intimi, forse anche irrispettosi di tutta l’apocalisse meno intima che c’è dietro.
Venerdì sera ero invece a Venaria, al Teatro della Concordia, un teatrone della cintura torinese. Sono arrivato al concerto in netto ritardo (ero altrove, per un altro concerto). Ho parlamentato con l’uomo della security, mostrando la ricevuta del biglietto (alla cassa erano giustamente entrati a sentire), e sono entrato senza problemi. Il luogo era certo meno bello dei miei idealizzati ricordi parigini, ma la mole di suono – quella sì – era superiore, inarrivabile. Gli otto sul palco (due batterie, due bassi, tre chitarre, un violino) erano nel pieno del crescendo finale di un pezzo, e il muro di suono era quasi tangibile, per come faceva tremare il cemento armato.
I Godspeed You hanno la rara capacità di produrre una massa sonora inaudita stando praticamente immobili, senza mai spingere sugli strumenti: non li vedrete mai maltrattare una chitarra per ottenere un feedback. I chitarristi seduti e compìti, persino i batteristi in apparenza poco coinvolti fisicamente dalla propria musica: il corpo, così centrale in tutta la storia del rock, rimane al buio, cerca di farsi il più possibile neutrale. E così i membri del gruppo: nessuno spicca, nessuno comanda. Non interagiscono con il pubblico in nessun modo. Cosa che è ancora più strana, non sembrano neanche interagire fra loro: si cercano raramente con gli occhi o con i gesti. Ognuno pare suonare in un suo mondo privato, eppure – evidentemente – si devono ascoltare, perché l’interplay è perfetto. Sullo schermo scorrono immagini analogiche: sono prodotte da quattro proiettori tipo super8, dietro al mixer, e nei (rari) silenzi se ne coglie il ronzio, come era nei vecchi cinema. Trasmettono paesaggi insieme post-apocalittici e reali, zone industriali, immagini che scorrono da un treno, cantieri di notte. Si erano aperte (colgo dalle foto viste dopo) con la scritta "Hope", perfetta nel suggerire tutti i significati successivi, nell’ammantarli di quel senso di triste apocalisse (triste ma politica, e mai rassegnata) che attraversa tutto il repertorio della band. E che sembra calare anche sul pubblico, che segue rapito, nel buio totale, senza quasi muoversi.
Nella lunga sequenza finale scorrono immagini di palazzoni. Potrebbero essere una periferia torinese, parigina, ma a me ricordano molto, in quel momento, delle foto fatte Damasco diversi anni fa. La notizia di Parigi arriva solo mentre usciamo: facce stranite si avvicinano per informare, si capisce ancora poco, si sa ancora poco. Qualcuno dice «ero a Parigi la settimana scorsa», un altro «gli Eagles of Death Metal dovevano venire qui a dicembre…», e neanche si sa ancora che fine abbia fatto la band. È anche troppo facile fare collegamenti, tutti mentali, personali, intimi, forse anche irrispettosi di tutta l’apocalisse meno intima che c’è dietro.
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