L'innovatore schivo

Jimmy Giuffre, musicista lucido e avventuroso, compositore e arrangiatore, modello per tutti i polistrumentisti da Eric Dolphy in poi: un disco dal vivo per riscoprirlo

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Non c'è luogo comune più difficile da estirpare dell'ottusa convinzione che la storia del jazz sia perfettamente logica e rigidamente strutturata. Una precisa concatenazione di evoluzioni e rivoluzioni rappresentabile con una linea retta che da un mitico punto "A" - che per comodità chiameremo Buddy Bolden - risale il Novecento fino a un punto "B" che di solito viene collocato da qualche parte dopo il Miles di Bitches Brew. E che per le schiere di rassegnati a tutte le latitudini coincide con il fatale esaurirsi del rinnovamento del linguaggio, la più volte annunciata e sbandierata morte clinica di un genere ormai orfano degli Ellington, dei Monk e dei Coltrane. In quanti negli ultimi trent'anni si sono sentiti in dovere di dare per spacciato il jazz? Guardiani della tradizione, fan cinici e delusi, catalogatori repressi, critici senza entusiasmo: un popolo triste che si aggrappa a questa o a quella certezza, celebrando riti funebri e componendo ogni sorta di epitaffio. Gli ultimi due sul sito del "Washington Post", un pruriginoso editoriale di Justin Moyer ("All that jazz isn't all that great"), e sul "New Yorker", che ha dato spazio a una satirica ammissione di inutilità recitata da un finto Sonny Rollins (quello vero, di Sonny Rollins, se l'è presa parecchio e ha risposto per le rime con una serie di video scoppiettanti la cui visione è consigliatissima). Tutti d'accordo, insomma: il jazz è morto, roba da museo, e i grandi maestri, come i dinosauri, ormai si sono estinti. Per fortuna la realtà è molto meno triste e molto più complessa. La storia del jazz non è una linea retta. Caso mai un complicato sistema di vasi comunicanti, un organismo vivente che si rigenera e si espande. Non solo allargando i confini del possibile (succede ancora, fidatevi), ma dialogando attivamente con un passato che persiste.

Non vi è chiaro il concetto? Prendete Bill Dixon e Julius Hemphill, e pensate a come la loro lezione sia stata metabolizzata solo di recente grazie a Tim Berne, Rob Mazurek, Nels Cline e tanti altri. Oppure Andrew Hill e Jackie McLean, padri a scoppio ritardato della modernità. O infine Jimmy Giuffre, innovatore schivo al quale il lento sedimentarsi dei giorni sta restituendo centralità e dignità. Musicista lucido e avventuroso, eccellente compositore e arrangiatore nell'orchestra di Woody Herman (al quale fece dono dell'epocale "Four Brothers"), modello per tutti i polistrumentisti da Eric Dolphy in poi (a metà dei Cinquanta già suonava il tenore, il baritono e il clarinetto, all'inizio dei Settanta il flauto, il flauto basso e il soprano), Giuffre giganteggia dall'alto di una visione unica e profetica del concetto di libertà. Elaborata a partire dalla prima versione del suo trio, con Jim Hall alla chitarra e Ralph Peña al contrabbasso, e portata a compimento all'inizio dei Sessanta, quando al texano di chiare origini italiane capitò di incrociare i passi dell'allora baffuto Steve Swallow e del canadese Paul Bley. Clarinetto, contrabbasso e pianoforte: un'inedita triangolazione destinata a lasciare il segno. Illuminati da Ornette (con il quale Giuffre aveva suonato alla Lenox School of Jazz di John Lewis nel '59: una folgorazione), i tre si spinsero oltre le colonne d'Ercole delle consuetudini, tracciando nuove rotte in mari esotici e mai solcati. Free Fall, pubblicato nel 1962, è la fotografia più nitida di un jazz cameristico, giocato sui contrappunti, nel quale i vuoti hanno la stessa carnale consistenza dei pieni. Un capolavoro visionario che costò a Giuffre il contratto appena firmato con la Columbia e dieci anni di purgatorio (sarebbe tornato in studio solo nel '71).

«Decidemmo di sciogliere il trio dopo un ingaggio che ci fruttò la miseria di 35 centesimi a testa», racconterà Swallow in una celebre intervista. Il pubblico, anche quello più progressista, aveva la testa altrove; i critici pure. Ma Giuffre non depose le armi. Il discorso iniziato con Swallow e Bley fu approfondito grazie a un ristretto cenacolo di devoti che si prestarono ben volentieri alle sedute domestiche organizzate regolarmente dal sassofonista nel suo loft e gli furono a fianco durante le rare esibizioni. Un paio delle quali, fortunatamente, sono finite su nastro; e poi in un triste scatolone che le ha custodite per quasi mezzo secolo. Fino a quando, nel 2012, il produttore Zev Feldman, supportato dalla spagnola Elemental Music, le ha riportate alla luce. Datano entrambe 1965 e ad ascoltarle oggi, anno di grazia 2014, c'è da restare abbacinati. Il primo concerto, registrato dall'allora diciannovenne George Klabin (attuale numero uno della Resonance Records), si tenne ai primi di settembre alla Judson Hall nell'ambito dell'Avant Garde Festival of New York. Con Giuffre, al clarinetto e al tenore, il contrabbassista Richard Davis e il batterista Joe Chambers. La musica? Spigolosa, matematica, perfettamente a fuoco nella sua totale scompostezza (ascoltate la rilettura di "Crossroads" di Ornette e confrontatela con l'originale). Non da meno il secondo set immortalato da Klabin a metà maggio. Sul palco newyorchese del Wollman Auditorium, di nuovo Davis, Chambers, Giuffre e in aggiunta il pianoforte di Don Friedman. Che aggiunge spigoli agli spigoli, dissonanze e cluster a brani che fin dai titoli - "Syncopate", "Angles", "Quadrangle" - la dicono lunga sul piglio cubista di chi li ha composti; mentre i timidi applausi del pubblico in sala, così come i fischi che avevano accolto il trio di Giuffre a Parigi qualche mese prima, la dicono lunga su come il jazz di allora fosse sintonizzato su ben altre frequenze. Non così il jazz di oggi, che di Giuffre è figlio legittimo e riconoscente. Lo ha ricordato Anthony Braxton a Graham Lock quando è stato il momento di citare maestri e fonti di ispirazione; lo ha ribadito Ken Vandermark qualche anno fa rispolverando il vessillo Free Fall per una propria rivisitazione del trio pianoforte-basso-clarinetto. Giuffre, l'innovatore schivo, ha ancora molto da dire e da insegnare.

The Jimmy Giuffre 3 & 4
New York Concerts
Elemental Music (2 cd)

Articolo pubblicato sul "gdm" 318, ottobre 2014

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