Praticamente ogni jazzista che si rispetti sa (o dovrebbe saper) improvvisare sulle armonie di canzoni immortali come "How High The Moon" o "Desafinado", destreggiarsi con "Ornithology" o provare a dare nuova vita a pezzi suonati da migliaia di colleghi come "All Of Me".
Sono gli standard. Repertorio che raccoglie sia canzoni di Broadway che brani codificati nelle notti del be-bop, bossanove alla conquista del mondo e temi di jazzisti come Miles Davis, Herbie Hancock o John Coltrane che (complici i dischi) sono diventati il patrimonio di tutti.
Agli standard ha dedicato uno splendido libro Ted Gioia (già autore, tra le tante cose, di una fortunata Storia del jazz), ora pubblicata da EDT. Si chiama Gli standard del jazz - una guida al repertorio (495 pp., 28 €), è tradotto e curato da Francesco Martinelli ed è suddiviso in schede che, oltre a raccontare la storia della canzone, ne suggeriscono alcune versioni, celebri o meno. Un libro da tenere sempre a portata di mano, da consultare con curiosità, dal momento che ogni brano - oltre a raccontarci un pezzo di storia recente - apre mondi e suggestioni sempre varie. Gli standard sono come le ciliegie: uno tira l'altro, e a volte si fatica a staccarsi dalle pagine del libro (più spesso accade perché si va a cercare su YouTube la versione suggerita).
Abbiamo conversato un po' con l'autore sul libro e su alcuni temi che ruotano attorno al tema degli standard.
Nell'introduzione al libro chiarisci molto bene il metodo con cui hai selezionato le canzone. Immagino non sia stato sempre facile scegliere o escludere.
«Nel libro ho inserito i 250 standard jazz più importanti. Non è una lista dei miei brani preferiti, perché se no avrei scritto un libro molto diverso. Non è ovviamente nemmeno una lista delle migliori 250 composizioni jazz, il mio obiettivo era quello di fornire una guida alle canzoni suonate più frequentemente dai jazzisti in questi anni.
Sono i pezzi che qualsiasi jazzista deve conoscere se vuole intraprendere una carriera professionale e sono quelle che molti appassionati vogliono ascoltare quando vanno a un concerto. Alcune sono tra le mie preferite, ma non tutte e i lettori sembrano divertirsi parecchio con le recensioni di canzoni su cui sono critico, come succede con "Mack the Knife" o "Come Rain or Come Shine"».
C'è qualche standard che ami particolarmente e che è rimasto fuori dal libro?
«Ovviamente ci sono molte canzoni che avrei voluto includere, ma sono decisamente più angosciato dal fatto che nessun brano recente è entrato nella lista. Il repertorio degli standard ha bisogno di essere aggiornato e quasi mai ascolto gruppi che suonano musica di compositori viventi, escludendo le canzoni scritte da componenti della band.
Poche canzoni negli ultimi decenni sono entrate nel repertorio degli standard, e anche quelle tendono spesso a essere di autori defunti come Michael Jackson o Kurt Cobain. Credo che il mondo del jazz trarrebbe molto beneficio da un dialogo più intenso con la musica pop di oggi. E, mi vien da dire, anche il pop ne beneficerebbe molto».
Mi piacerebbe parlare brevemente con te del rapporto tra gli standard e i materiali "originali" (chiamiamoli così) nel jazz. Se infatti gli standard costituiscono un linguaggio comune per i musicisti di ogni angolo del mondo, la storia del jazz è stata costruita anche da musica composta in modo del tutto "personale", che raramente e con difficoltà può essere riletta da altri (da Black, Brown & Beige a The Black Saint & The Sinner Lady, da A Love Supreme alla Western Suite di Jimmy Giuffre tanto per dirne alcuni a caso...). Quali sono gli equilibri in gioco? Devo confessarti che, sia come semplice ascoltatore che come critico, trovo davvero difficile che anche composizioni di Monk o di Ellington possano essere trattate come standard.
«Monk e Ellington sono ottimi esempi di compositori che hanno scritto della musica perfettamente create per le qualità e le capacità dei musicisti che dovevano suonarle. E questo certamente presenta un certo livello di sfida al musicista di oggi che voglia cimentarsi con quei lavori. Gli appassionati hanno ascoltato tanti pianisti mettersi alla prova con composizioni di Monk e finire per scimmiottare lo stesso Monk. Ho incontrato anche degli straordinari talenti che hanno difficoltà a trovare un approccio personale a questa musica. Indubbiamente affrontare uno standard può essere un atto di delicatissimo equilibrio. Ciascuna di queste canzoni ci arriva con una storia e una lunga tradizione di precedenti esecuzioni. I jazzisti professionisti dovrebbero essere ben consapevoli di questa storia - ed è una delle ragioni per cui ho scritto il libro - ma nello stesso tempo non possono farsene schiacciare. Le migliori rese di uno standard sono quelle che aggiungono qualcosa di nuovo e sono sempre contento quando sento una vecchia canzone suonata con un approccio fresco e inedito. Ho il sospetto che molti musicisti siano troppo rispettosi della tradizione. Come tutti amo alla follia i vecchi dischi, ma credo debbano servire solo come punto di partenza, non come obiettivo dell'approccio di un musicista a uno standard».
Parliamo dei testi. Molti anni fa, quando ancora suonavo, ho seguito un workshop tenuto da uno dei pianisti italiani più bravi e intelligenti e ricordo che ci diceva che per suonare uno standard in modo che avesse senso, dovevamo conoscerne perfettamente le parole e dovevano anche piacerci. Ovviamente non va sempre così, migliaia di musicisti in giro per il mondo suonano canzoni di cui conoscono perfettamente gli accordi e ignorano il testo. Alcuni standard hanno testi bellissimi, altri parole banali o talvolta ridicole. Che ne pensi?
«Credo che i e le cantanti debbano essere molto attenti al significato delle parole, ma non sono certo che la stessa regola si debba applicare per gli strumentisti. Quando un sassofonista suona "Summertime" deve sentirsi libero di portare nella musica anche elementi dell'inverno, della primavera e dell'autunno. Ma quando sento un cantante o una cantante alle prese con uno standard, voglio sentire il contenuto emotivo della canzone riportato in vita. Troppi cantanti non riescono a farsi coinvolgere dal significato profondo della musica che cantano. E questa dovrebbe essere la principale sfida per chi canta jazz, anche più importante delle questioni tecniche».
Nel tuo libro parli spesso dei testi delle canzoni, hai mai preso in considerazione l'idea di pubblicarli assieme alle schede degli standard relativi?
«Mi sarebbe piaciuto inserire i testi delle canzoni, o addirittura gli spartiti, ma questo avrebbe comportato un grosso investimento in termini di diritti e permessi da parte degli autori e delle edizioni. E il libro sarebbe costato davvero troppo».
Sempre nella tua introduzione accenni al ruolo del Real/Fake Book nella diffusione degli standard. Sono cresciuto anch'io con quelle raccolte di spartiti e ricordo bene (oltre alla caterva di errori nelle armonie...) la buffa circostanza di essere uno studente che, con il Real Book, poteva benissimo ignorare alcune pietre miliari del jazz, ma al tempo stesso poteva destreggiarsi con gli accordi di "Olhos de gato" di Carla Bley! Credi che i processi educativi nel jazz abbiano in qualche modo favorito una cristallizzazione del repertorio degli standard?
«La diffusione di fake books è una benedizione e una maledizione al tempo stesso. Ricordo ancora con precisione la prima volta che ho visto una copia del Real Book e la mia gioia nel rendermi conto che avrei avuto accesso a tutto quel materiale. Ma non credo sia una coincidenza che il repertorio degli standard abbia incominciato a inaridirsi proprio con l'apparire del Real Book. Ho l'impressione che i musicisti abbiano iniziato a considerare gli standard più come un canone di capolavori del passato che non come un qualcosa in costante evoluzione. Ai miei studenti dico di imparare dai fake books, ma di non farsi limitare da quelli. Devono imparare le canzoni a orecchio e prendere in considerazione le tante splendide canzoni che in quelli non sono incluse».
Accennavi prima alla mancanza di nuovi standard. Ho l'impressione che da una parte il repertorio "pop" sia diventato nei decenni sempre più personale e legato a un mondo complessivo dell'autore/cantante (il sound, la voce, il contesto, l'immagine...) e in questo senso devo dirti che trovo sempre deludenti le riletture di brani di gruppi o cantanti molto "connotati", come i Radiohead o Nick Drake. Dall'altra parte, al di là dei contesti di jam session o di studio, le nuove generazioni di musicisti mi sembrano forse più interessati a costruire un repertorio di proprie composizioni (o magari a riscoprire qualche gemma dimenticata) che non ad aggiungere "un'altra inutile versione di 'All The Things You Are'" al mucchio. Non trovi?
«Io invece sono contento quando ascolto una band che suona una canzone dei Radiohead o di Nick Drake. Ma mi piacerebbe sentire jazzisti che suonano brani dei loro colleghi nel mondo del jazz. Ascoltare Joe Lovano che suona un pezzo di un altro sassofonista contemporaneo o Chick Corea alle prese con una canzone scritta da un collega pianista. Non è strano che i principali musicisti jazz registrino dischi interi di proprie composizioni e a nessun altro venga poi voglia di registrarle? E che gli stessi musicisti non suonino quasi mai composizioni di colleghi viventi che non siano membri del loro gruppo? Sarebbe una cosa davvero salutare».
Credo che qui tu colga un punto davvero nodale, Ted. Personalmente credo che questo sia dovuto in parte alla forte immagine identitaria del jazzista contemporaneo come creatore/performer e in parte al fatto che più ci si allontana da un sistema di "produzione" tradizionale tipo Broadway (con qualcuno che scrive una canzone che altri canteranno) e più, come ricordavi giustamente prima su Ellington, i musicisti tendono a comporre musica fatta "su misura" per se stessi e i componenti della propria band. Il discorso è interessante, ma forse ci porterebbe troppo lontano dal nostro tema...
Prima di salutarci ti chiedo però di scegliere per i lettori del "giornale della musica" tre standard da "isola deserta".
«"Lush Life" nella versione di John Coltrane e Johnny Hartman.
"My Foolish Heart" suonata da Bill Evans.
"All of Me" cantata da Billie Holiday con Lester Young».