Steve Lehman & Sélébéyone
Sélébéyone
Pi Recordings
Già prima di dilagare a livello planetario come genere musicale non solo ascoltato ma massicciamente praticato dalle giovani generazioni, l’hip hop ha trovato orecchie attente nel jazz: Max Roach fu pronto a farsene autorevole avvocato, e un quarto di secolo fa Miles Davis ci lasciò con un abbozzo di connubio (su cui fu costruito l’album postumo Doo-Bop) di cui rincresce di non aver potuto vedere gli sviluppi.
Le manifestazioni di interesse per un dialogo non sono mancate, da entrambe le parti, ma malgrado la loro parentela come musiche con una determinante matrice afroamericana non si può dire, decenni dopo l’apparire del rap sulla scena, che siano fioccati capolavori nati dall’incontro di jazz e hip hop.
Sul terreno di una dialettica fra i due generi scende adesso Steve Lehman, con l’album Sélébéyone (PI Recordings). Non da oggi attento all’universo hip hop, il trentottenne sassofonista americano è uno dei protagonisti della scena jazz/improvvisazione di oggi da seguire con maggiore interesse: celebrato il suo Mise en Abîme (pubblicato nel 2014 dalla stessa etichetta), in ottetto, e eccellente, esaltante nella sua novità il suo ottetto è apparso anche dal vivo: dal punto di vista dell’organizzazione di una dimensione musicale innovativa, esplorativa, con un organico improvvisativo-jazzistico acustico Lehman ha pochi paragoni: viene in mente Henry Threadgill, il che è tutto dire. Con qualcosa – ma trasposto su una sensibilità di oggi – di quello che di febbrile e anfetaminico aveva il bebop di Parker e Gillespie, la forza di Lehman sta proprio nell’arte di costruire in maniera non convenzionale la musica di un organico né piccolo né troppo grande: come appunto il suo ottetto. In trio per esempio (come abbiamo avuto occasione di ascoltarlo dal vivo), la concezione della sua musica non si distingue per una straordinaria originalità, né il suo solismo (sax alto, Lehman ha un debito con Jackie McLean, con cui ha avuto la fortuna di studiare, ma non ha l’incisività di un McLean di oggi) è tale da riscattarla.
Qui Lehman lavora con un organico strumentale ridotto: il sax soprano del francese Maciek Lasserre (anche compositore di alcuni brani), il piano e le tastiere di Carlos Homs, il contrabbasso di Drew Gress e la batteria di Damion Reid; a cui si aggiungono due rapper: il noto HPrizm, americano, che si esprime in inglese, e il senegalese Gaston Bandimic, in wolof. Tutt’altro che disprezzabile, la musica non ha però la dinamica eccitante dell’ottetto, che nel panorama della musica improvvisata e del jazz di ricerca di oggi ha davvero una marcia in più non solo come bellezza ma come audace novità nella struttura del suo procedere, e che in definitiva ha una sensibilità molto contemporanea, che già con l’hip hop è per lo meno in sintonia anche senza bisogno di utilizzarlo esplicitamente come ingrediente. In un certo convulso, straziato lirismo metropolitano, in Sélébéyone si può invece trovare se vogliamo un sentore di manierismo.
Niente a che vedere col modo più corrente nel jazz di approcciarsi al rap, cioè quello di interpretare con strumenti e modalità jazzistiche le basi hip hop: qui Lehman rovescia i termini della questione, e ingloba nella sua musica i due rapper, che piuttosto che essere i protagonisti diventano un elemento di un insieme. HPrizm in realtà più che rap in senso stretto fa per lo più la voce recitante, mentre più hip hop è Bandimic.
Ma, non deliziandoci con l’esotico, e avendo un po’ di familiarità con il wolof e con il rap senegalese, gli inserimenti di Gaston Bandimic ci appaiono francamente un po’ estrinseci e in qualche momento anche un filino kitsch. E poi la domanda che ci viene è: ma che senso ha un rapper senegalese cooptato dentro una musica come questa, tra jazz d’avanguardia, free music, spettralismo (Lehman, musicalmente iper-formato, ha studiato anche con Tristan Murail, uno dei principali esponenti della “musica spettrale” di matrice francese: Gerard Grisey, Hugues Dufourt, eccetera)?
E che c’entrano i suoi testi che fanno per esempio riferimento a Amadou Bamba, a Cheikh Ibra Fall, cioè alla confraternita murid e al suo interno al movimento Baye Fall? L’impressione è che una volta di più l’Africa venga oggettivamente utilizzata (certo non nelle intenzioni di Lehman) come comparsa e come colore.
La spiegazione che suggeriscono il titolo e le note di copertina è la “confluenza”, l’”intersezione” (questo il senso di sélébéyone: in wolof yoon significa strada). E a confermare la sensazione di un’idea di “melting pot, mix, métis” (come canta ad un certo punto Bandimic) un po’ buona per tutte le stagioni, c’è Kwami Coleman della NY University che nelle note di copertina, subito dopo aver dato conto del significato del titolo, sembra volerlo rafforzare informandoci che “la lingua wolof, nell’area metropolitana di Dakar, converge idiomaticamente con il francese e l’arabo”.
Non capiamo bene cosa voglia dire, forse che nel wolof si usano parole francesi e arabe (ma anche in italiano si dice film, mouse, manicure e dessert nonché zucchero e carciofo che vengono dall’arabo), ma il wolof è una lingua con una sua completa autonomia, che Cheikh Anta Diop (fra l’altro grande riferimento per molti rapper) ha fatto risalire alla lingua dell’Antico Egitto.
Nato da un’iniziativa di Maciek Lasserre, l’album peraltro è stato reso possibile da una serie di istituzioni ed enti fra cui diversi d’oltralpe, tradizionalmente impegnati a marcare attraverso la cultura e la francofonia la presenza francese nelle ex colonie.
Tornando al tempo ormai lungo – a cui ci si riferiva all’inizio – che jazz e hip hop hanno avuto per stabilire un rapporto, viene da chiedersi perché questa relazione non sia mai veramente sbocciata. Mezzo secolo fa l’incontro tra jazz e rock era nell’aria, è avvenuto per forza di un impulso largamente spontaneo, e ha creato una nuova scena che, con proposte più o meno buone, ha comunque sensibilmente arricchito e modificato il panorama generale. Niente di questo genere è avvenuto fra jazz e hip hop: si potrebbe ragionare a lungo sui motivi, ma forse si può dire in buona sostanza che, a cominciare dagli Stati Uniti, di quell’incontro non c’era in fondo una vera esigenza. Che non è stata avvertita significativamente neanche in altri paesi con una tradizione jazzistica e un robusto tessuto di hip hop, da Cuba al Brasile alla Francia. Quanto all’Africa, l’hip hop, che ha messo profonde radici, con una sedimentazione ormai plurigenerazionale, in quasi tutte le regioni del continente, vive benissimo anche senza avere nel jazz, in pratica quasi completamente marginale salvo che in Sudafrica, un interlocutore reale.