Kudsi Erguner – sessantaquattrenne maestro del flauto ney, direttore d'orchestra e compositore – è stato ed è un uomo chiave e un nocchiero indispensabile per chiunque voglia affrontare un viaggio diretto nel mare magnum della musica turca, quale che sia la declinazione che volete dare al termine.
La musica turca ottomana è un oceano di suoni diversificati, in cui è sì possibile – spesso – individuare snodi, caratterizzazioni specifiche e particolarità, ma che è anche e soprattutto ciò che il macinio di secoli di incontri, scontri, influenze incrociate, scelte e chiusure hanno costruito, per una nazione situata in un luogo cruciale del pianeta per i transiti di persone e di merci.
Specifica lo stesso Erguner, a tal proposito:
«Ciò che viene detto ancor oggi “musica classica turca” è invece la musica classica di molte genti che hanno condiviso una storia comune in seno all’impero ottomano. Non è quindi una musica fatta per essere apprezzata secondo l'appartenenza nazionale ma secondo il gusto di una cultura comune, esattamente come la musica classica europea».
Ricordando anche che l'opera musicale e musicologica di Erguner non s'è applicata solo alla “memoria”, ma ha trovato varchi sorprendenti nelle collaborazioni con artisti come Peter Brook, Bob Wilson, Carolyn Caerson e tanti altri, qui daremo conto invece di un paio di eccellenti “viaggi” monografici che il musicista turco ha scelto di pubblicare con Nota, la casa editrice/etichetta diretta da Valter Colle, nella benemerita collana Intersezioni Musicali promossa dall'Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati.
In ambedue i casi Erguner è alla testa del notevole Ensemble Bîrun, una “piccola orchestra” in cui si ritrovano musicisti di diverse nazionalità, anche italiani, allievi diretti e compagni di avventura sonora del maestro.
Il primo titolo è I Maftirîm e le opere degli ebrei sefarditi nella musica classica ottomana, risultato diretto della quarta edizione del seminario annuale Bîrun di alta formazione in musica classica ottomana dell’aprile 2015. Duecento anni circa è il periodo “fotografato” per quanto riguarda gli apporti degli ebrei sefarditi – gli scampati alla furia del 1492 dei re cristianissimi della Penisola iberica, e i loro discendenti (ma altri ceppi ebraici erano già presenti nelle terre del sultano). Essi adottarono ovviamente il modus operandi del maqâm: la microtonalità, la modalità, l'eterofonia e i cicli ritmici complessi, portando però anche del loro: e qui sbalzano i Maftirîm del titolo, rari brani che venivano usati per aprire e chiudere le funzioni religiose ebraiche. Interessante, anche, considerare come i sefarditi intrattennero proficui e collaborativi rapporti con i musicisti e i danzatori delle confraternite Sufi dei dervisci rotanti.
Cruciale per motivi storici (oltre che ovviamente per motivi di interesse musicale) è il cd Compositori armeni nella musica classica ottomana, che va a toccare un nervo ancora oggi scoperto, dopo il ben noto arroccamento dei governi turchi sul genocidio degli armeni. In questo caso le registrazioni sono frutto del lavoro seminariale del 2013, e sono presentate, in forma di suite (fasil) con interludi improvvisati (taqsím). I compositori armeni ebbero radice nella musica liturgica del cristianesimo apostolico, prima di trovare l’incontro con la musica secolare ottomana – incontro voluto e favorito dalle autorità ottomane. Si tratta di repertori modali distinti da quelli dei cristiani ortodossi. E c'è da sottolineare che, in realtà, bisognerebbe parlare di “musiche” armene, al plurale, assai eterogenee: distinguendo le aree di provenienza e i diversi momenti storici in cui a ciò che definiamo “Armenia” corrisposero porzioni di territorio diverse.
Due cd preziosi, insomma, che vanno a colmare un vuoto importante: portano musica di ieri, e parlano invece all’oggi.