Cesare Basile in piazza

Il cantautore catanese continua il suo percorso di riappropriazione del folk siciliano

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Cesare Basile
U fujutu su nesci chi fa?
Urtovox

La riappropriazione del retaggio folk ha permesso a Cesare Basile di riscoprire il potere evocativo della filastrocca e della cantilena, un po’ come successe ai CSI (e ancor più ai PGR) di Giovanni Lindo Ferretti. Solo che se in quest’ultimo il salmodiare rimaneva intinto di una posa un po’ cerebrale e monocroma, fissata in un gesto immobile quasi da figurina mitteleuropea, nel musicista catanese trattiene un grumo di sangue, di carnalità, di vigore dionisiaco.

La matrice rock di entrambi si bagna a distanza di anni in matrici folk diverse (l’una appenninica, l’altra totalmente insulare) che poteva però generare un frutto dalle fattezze simili e invece il risultato è decisamente diverso. Basile, da qualche disco a questa parte, ha tracciato un viaggio sempre più spinto al centro della sua terra, certificato in quest’ultimo lavoro anche dalla pressoché totale adesione al vernacolo (a partire dal titolo). Dialetto inteso come lingua madre, come porto d’approdo, come volano atavico capace di evocare le immagini poetiche dei testi, anzi di farle risuonare, meglio ancora, di trasformarle in pose mobili, turgide, agglomeranti. Si scorrano le prime quattro tracce del nuovo lavoro al proposito: si parte da uno “Scongiuro”, che suona in realtà come una registrazione sul campo di un rituale pagano e cattolico rivisitato in studio per rendere l’ambiente e il mood ancor più allucinato e si prosegue con “Lijatura”, “Tri nuvuli ju visti cumpairi” e “Cincu pammi” in cui la cadenza della voce di Basile resta ossessiva e ipnotica come in una celebrazione della Passione o in un carnevale esoterico.

«Questa è la storia della Dannata – ha spiegato il catanese – la città in cui per sortilegio gli offesi sono grati a chi li offende. La storia della tromba d’aria che viene a distruggerla, la storia che si racconta quando una donna si fa scuro e tempesta per giustizia o per vendetta». Tutto intorno a questa voce si condisce un bailamme di suoni, splendidamente costruito e fortemente intriso ancora di una doppia veste e di due matrici che si sovrappongono come una gonna multistrato: il folk siculo, meridionale e mediterraneo e il rock scuro, con venature dark, debitore a Nick Cave e a Tom Waits.

Il sapore dei dischi di quest’ultimo viene fuori particolarmente in “Cola si fici focu”, che è il brano in cui più il canto sostituisce la salmodia (ma senza esagerare) e il corredo sonoro cerca più spudoratamente matrici esterne rispetto al circondario della trinacria tradizionale. Ma è solo un fuoco di paglia, perché in “Storia di Firrignu” (con una citazione esplicita del teatro dei Pupi), “U Scantu”, “U Fujutu su nesci chi fa” e “Fimmina trista fimmina nata” torna il canto e l’immaginario della filastrocca popolare (anche amara, oscena o rabbiosa) a cadenzare le strutture e i canoni delle canzoni. 

«È storia narrata agli angoli delle piazze dalla voce consumata di un vecchio cuntista – aggiunge Basile - Ed è la paura, il nostro insoddisfatto bisogno di consolazione». Il rovistio illuminato dello stesso Basile e di tanti solidali compagni di viaggio (Sara Ardizzoni, Enrico Gabrielli, Rodrigo D’Erasmo, Simona Norato, Massimo Ferrarotto, Luca Recchia, Giuseppe Rizzo, Roberta Gulisano, Giulio Andreani, le Coppola Girls…) disegna un tracciato che filtra la coerenza alla luce della sorpresa, con soluzioni timbriche sempre appropriate, eppure mai didascaliche.

È un “futuro antico” quello che viene fuori dal mondo di Basile. E quando alla fine ce ne si congeda, con quella ballata struggente e chiara, scheletrica e sospesa che è “Cirasa di Jinnaru” (“Ciliegia di Gennaio”), si vorrebbe restare ancora un poco in quell’”angolo di piazza” che Basile ha scelto per celebrare la sua catartica ode alla propria terra.

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