Sault, Gangs of London
Il nuovo lavoro dei Sault, Primule Rosse della black music britannica
Riecco i Sault, le Primule Rosse della black music d’oltremanica, al quinto album in poco più di due anni. Per la prima volta, anziché pubblicarlo a sorpresa, l’avevano preannunciato, lo scorso 14 giugno, comunicandone la disponibilità limitata a 99 giorni. Dopo di che – da inizio ottobre, in coincidenza con la materializzazione su vinile e cd – dovrebbe sparire dalle piattaforme (come arginare però la circolazione dei file, scaricabili gratuitamente qui? Se hanno trovato il modo, congratulazioni: varrebbe quanto l’autodistruzione ad asta avvenuta del quadro di Banksy con la bambina e il palloncino rosso).
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Analogamente al più celebre graffitista sconosciuto del pianeta, o a Burial, per restare in alveo musicale, Sault è sinonimo di anonimato. Fino a un certo punto, in verità: produttore e principale autore è Dean Josiah Cover, alias Inflo, e al clan appartengono Cleopatra “Cleo Sol” Nikolic, Melisa “Kid Sister” Young, rapper originaria di Chicago, e il tastierista Kadeem Clarke.
E comunque, se preferiscono rimanere nell’ombra (zero interviste, niente foto, concerti nemmeno a parlarne), sono affari loro. Resta la musica, e tanto basta: anche in questo caso solida e inventiva, appena più sfumata e intimista rispetto ai lavori precedenti.
Dipende dal tema conduttore, che trapela in controluce: il sangue nelle strade di East London, emorragia scatenata dalla guerra fra gang. Brano d’apertura, tolto uno sketch introduttivo – “Haha” – dal vago sapore afro, è appunto “London Gangs”, dove su un aggressivo groove quasi post punk modellato plasticamente dal basso accade un po’ di tutto, inclusa un’interpolazione del classico da Capodanno “Auld Lang Syne” (e un verso recita: “Gang di Londra, RIP i codici postali, conosci solo vendetta”).
Arriva poi “Trap Life”, filastrocca su base dub che cammin facendo imbizzarrisce in stile kuduro e intanto implora: “Ti prego, non afferrare quel coltello”. Sembra una discesa agli inferi: “Fear” – parola d’ordine: “Il dolore è reale” – è hip hop da catacomba, preludio al reportage da Dalston, epicentro dei regolamenti di conti, affidato alla voce ospite di Michael Ofo (“E quello fu il giorno in cui scoprimmo che mio padre era stato assassinato”). Un raggio di luce taglia le tenebre quando sgorga “Bitter Streets”: la cronaca è ancora nera (“Hai fatto amicizia con una pistola, non te ne sei andato, ti sei innamorato della strada”), ma l’atmosfera da soul psichedelico suscitata dall’irruzione degli archi riscatta l’amarezza espressa nel titolo.
Il languido R&B da dopo sbronza intonato in “Alcohol” anticipa il prezioso cammeo di Little Simz, sodale di Inflo che snocciola rap in maniera inconfondibile durante “You From London”, alternando spleen da Brexit (“Sai una cosa? Adoro l’Europa!”) e fierezza autoreferenziale (“Chiudi quella bocca! Non sono i Sault?”).
Indugiando nuovamente sulla “gang culture”, l’episodio numerato come il disco intero schiude tuttavia con grazia uno scorcio di speranza: “Un giorno ce la farai, un giorno sarai libero, prima di perderti non dimenticarti di sognare”. E all’epilogo “Light in Your Hands” lo amplifica in forma di torch song: “Non scoraggiarti mai, puoi sempre ricominciare daccapo”.
Radicato musicalmente in un tipico umore londinese, memore dei Soul II Soul e del migliore acid jazz targato Talkin Loud, il discorso dei Sault riafferma la propria vocazione politica, infiammata l’anno passato in (Black Is) e (Rise) dal fervore di Black Lives Matter e invece rivolta in questa occasione a un’esplorazione interiore della comunità nera della capitale britannica. Roba davvero forte.