Le Sleater-Kinney a casa di St. Vincent
Dal punk femminista al pop elettronico, la metamorfosi delle Sleater-Kinney (prodotta da St. Vincent) non convince
La concomitanza degli eventi suggerisce un’analogia con i fatti di casa nostra. Prendiamo un’entità dotata di storia lunga e rispettabile, nel caso specifico le Sleater-Kinney, la band statunitense simbolo del punk femminista anni Novanta, quello delle cosiddette riot grrrls, messa in contatto con una certa verve pop(ulista) contemporanea, personificata dalla diva St. Vincent. Risultato: una sterzata netta in termini di linguaggio e contenuti. Effetto collaterale: la diaspora di chi dissente. Il Calenda della situazione sarebbe la batterista Janet Weiss, dimessasi a inizio luglio affermando di non condividere il “nuovo corso” (scelta che non le ha portato fortuna: in agosto è stata vittima di un grave incidente d’auto, a causa del quale dovrà rimanere ferma per alcuni mesi).
Del resto, l’album della discordia – nono in carriera per le Sleater-Kinney e secondo dalla rimpatriata del 2015, dopo la separazione datata 2006 – è intitolato “il centro non reggerà”, espressione che sembra mutuata dal gergo politico nostrano, benché in realtà parafrasi un verso di William Butler Yeats – “The Center Cannot Hold” – tratto da una poesia, The Second Coming, scritta esattamente un secolo fa. Venendo alla musica, il segnale è chiaro fin dal brano che dà nome all’opera e apre la sequenza: greve scansione elettronica, voce filtrata e tardiva esplosione rock.
Il pezzo seguente, “Hurry On Home”, incalzante numero pop dall’umore ombroso, conferma il mutamento di rotta: la mano santa e vincente di Annie Clark ha plasmato il suono del gruppo fino a trasfigurarlo. Lo ribadisce “Reach Out”, avanzando lineare su cadenze tipo Depeche Mode, mutuandone pure il pessimismo cosmico: “L’oscurità sta vincendo di nuovo”.
Ed è forse l’episodio più riuscito del disco, al pari del successivo “Can I Go On”, dal nostalgico sapore doo wop.
Carrie Brownstein, affermatasi su larga scala durante la sospensione dell’attività grazie alla serie televisiva Portlandia, di cui è stata sceneggiatrice e protagonista, che da sempre costituisce la coppia motrice delle Sleater-Kinney insieme a Corin Tucker, aveva premesso quali fossero le intenzioni, d’altra parte, dichiarando preliminarmente di essersi ispirata a una canzone di Rihanna – “Stay” – per impostare questo lavoro. Lo si capisce ascoltando l’epilogo, “Broken”: ballata ad alta intensità emotiva condotta dal pianoforte, composta per rendere onore a Christine Blasey Ford, accusatrice del candidato alla Corte Suprema Brett Kavanaugh, molestatore sessuale seriale (“Si è battuta per noi quando ha testimoniato”).
Che nell’arte, come nella vita (e magari in politica), il cambiamento sia salutare, non c’è dubbio. “Il futuro è qui e non possiamo tornare indietro”, conclude “The Future Is Here”. E nella filastrocca robotica “LOVE” lo slogan è: “Nulla da nascondere e nulla da dimostrare”. Tutto giusto, anzi sacrosanto. Peccato per il risultato, però: lo dimostrano l’impacciato groove di “Bad Dance” e la ridondante enfasi epica di “The Dog/The Vibe”, così distanti dallo stile tagliente ed essenziale dei tempi andati da far pensare che si tratti di un’altra band. The Center Won’t Hold è un album coraggioso ma insoddisfacente.