Le Sleater-Kinney a casa di St. Vincent

Dal punk femminista al pop elettronico, la metamorfosi delle Sleater-Kinney (prodotta da St. Vincent) non convince

Sleater Kinney nuovo album
Disco
pop
Sleater-Kinney
The Center Won’t Hold
Mom + Pop
2019

La concomitanza degli eventi suggerisce un’analogia con i fatti di casa nostra. Prendiamo un’entità dotata di storia lunga e rispettabile, nel caso specifico le Sleater-Kinney, la band statunitense simbolo del punk femminista anni Novanta, quello delle cosiddette riot grrrls, messa in contatto con una certa verve pop(ulista) contemporanea, personificata dalla diva St. Vincent. Risultato: una sterzata netta in termini di linguaggio e contenuti. Effetto collaterale: la diaspora di chi dissente. Il Calenda della situazione sarebbe la batterista Janet Weiss, dimessasi a inizio luglio affermando di non condividere il “nuovo corso” (scelta che non le ha portato fortuna: in agosto è stata vittima di un grave incidente d’auto, a causa del quale dovrà rimanere ferma per alcuni mesi).

Del resto, l’album della discordia – nono in carriera per le Sleater-Kinney e secondo dalla rimpatriata del 2015, dopo la separazione datata 2006 – è intitolato “il centro non reggerà”, espressione che sembra mutuata dal gergo politico nostrano, benché in realtà parafrasi un verso di William Butler Yeats – “The Center Cannot Hold” – tratto da una poesia, The Second Coming, scritta esattamente un secolo fa. Venendo alla musica, il segnale è chiaro fin dal brano che dà nome all’opera e apre la sequenza: greve scansione elettronica, voce filtrata e tardiva esplosione rock.

Il pezzo seguente, “Hurry On Home”, incalzante numero pop dall’umore ombroso, conferma il mutamento di rotta: la mano santa e vincente di Annie Clark ha plasmato il suono del gruppo fino a trasfigurarlo. Lo ribadisce “Reach Out”, avanzando lineare su cadenze tipo Depeche Mode, mutuandone pure il pessimismo cosmico: “L’oscurità sta vincendo di nuovo”.

Ed è forse l’episodio più riuscito del disco, al pari del successivo “Can I Go On”, dal nostalgico sapore doo wop.

Carrie Brownstein, affermatasi su larga scala durante la sospensione dell’attività grazie alla serie televisiva Portlandia, di cui è stata sceneggiatrice e protagonista, che da sempre costituisce la coppia motrice delle Sleater-Kinney insieme a Corin Tucker, aveva premesso quali fossero le intenzioni, d’altra parte, dichiarando preliminarmente di essersi ispirata a una canzone di Rihanna – “Stay” – per impostare questo lavoro. Lo si capisce ascoltando l’epilogo, “Broken”: ballata ad alta intensità emotiva condotta dal pianoforte, composta per rendere onore a Christine Blasey Ford, accusatrice del candidato alla Corte Suprema Brett Kavanaugh, molestatore sessuale seriale (“Si è battuta per noi quando ha testimoniato”).

Che nell’arte, come nella vita (e magari in politica), il cambiamento sia salutare, non c’è dubbio. “Il futuro è qui e non possiamo tornare indietro”, conclude “The Future Is Here”. E nella filastrocca robotica “LOVE” lo slogan è: “Nulla da nascondere e nulla da dimostrare”. Tutto giusto, anzi sacrosanto. Peccato per il risultato, però: lo dimostrano l’impacciato groove di “Bad Dance” e la ridondante enfasi epica di “The Dog/The Vibe”, così distanti dallo stile tagliente ed essenziale dei tempi andati da far pensare che si tratti di un’altra band. The Center Won’t Hold è un album coraggioso ma insoddisfacente.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

pop

La prima da solista di Kim Deal

Nobody Loves You More è il primo album dell’icona femminile dell’indie rock statunitense

Alberto Campo
pop

L'album di famiglia di Laura Marling

Il nuovo disco della cantautrice inglese Laura Marling nasce dall’esperienza della maternità

Alberto Campo
pop

Godspeed You! Black Emperor: un requiem per Gaza

Il nuovo lavoro della band canadese è ispirato al dramma del popolo palestinese

Alberto Campo