Le canzoni filosofiche di Lætitia Sadier
Rooting for Love è il quinto lavoro da solista per la cantante degli Stereolab
Dichiara nel titolo di “tifare per l’amore”, Lætitia Sadier: artista francese emigrata a Londra nel 1989 e l’anno seguente madrina dell’impagabile cricca “avant pop” chiamata Stereolab, da poco ricostituita e ultimamente oggetto di una campagna di ristampe discografiche (prossimo atto: il cofanetto cumulativo della serie Switched On).
Da solista ha accumulato finora cinque album, Rooting for Love incluso, rimanendo nel solco di quel suono al tempo stesso nostalgico e innovativo, impreziosendolo tuttavia con un tocco personale che lo distanzia impercettibilmente dal canone originario.
Nella circostanza enfatizza la dimensione umanistica del proprio messaggio musicale, rivolgendo – ha spiegato introducendolo – “un appello alle civiltà traumatizzate della Terra che esorta a superare finalmente i nostri innumerevoli millenni di sofferenza e alienazione”.
Vasto programma, direbbe una suo famoso connazionale. Proviamo a capire… Fra le pieghe di un’orchestrazione da jazz “progressivo”, l’iniziale “Who + What” è un invito alla Gnosi: “In procinto di diventare Cittadini dell’Universo, molto oltre le nostre aspirazioni, più complesso di ogni nostro sogno”.
In sequenza arriva poi – annunciato da un arzigogolato neologismo – “Protéïformunite”, dove la si ascolta cantare in madrelingua cose come: “L’obiettivo è eliminare l’ignoranza, per interrompere il ciclo infinito della sofferenza”.
Il seducente effetto Rive Gauche, riverbero di una data di nascita fissata nel maggio 1968, si replica subito dopo in “Un Autre Attente”, sublime esercizio di (post)modernariato in cui filosofeggia su sé stessa: “Sto smontando il mio personaggio, fatto tutto di identificazioni e linguaggi”.
Francofone sono pure l’intestazione del ritratto “La nuotatrice nuda”, madrigale impressionista intonato però – su fraseggio di vibrafono e accordi di piano Wurlitzer – in inglese (“Esperienza che potrebbe scombussolare la personalità, rivelando l’oro dentro il tuo cuore”) e una raccomandazione a “Medicare l’inaccettabile”, espressa avendo intorno un’ambientazione squisitamente anacronistica a base di archi e trombone, suonato da lei.
Se nella sua eleganza svagata “The Dash”, celebrando “la luminosità discreta della tua oscurità”, è forse l’episodio di più stretta osservanza “stereolaboriosa”, mira altrove l’impennata “prog” nella quale sfocia – con flauto imbizzarrito e chitarra distorta – “The Inner Smile”, cesellato testualmente in modalità training autogeno (“Sorridi a tutte le parti del tuo essere, sorridi a quelle di cui sei consapevole e a quelle di cui non lo sei, sorridi e ringrazia l’intero tuo corpo”).
Sorretta in genere dall’assortita strumentazione elettroacustica del Source Ensemble, che l’affianca stabilmente dal vivo, e dalle polifonie di The Choir, Sadier se la cava egregiamente anche nei brani conclusivi, d’impronta viceversa minimalista: “New Moon” è una ballata scarna ma intensa, mentre “Cloud 6” suggella il disco fra arpeggi di sintetizzatore e bordone d’organo degno di Terry Riley, pronunciando un ultimo ammonimento: “Il mondo rinuncia alla sua libertà perché è impaurito”.