La condizione umana secondo The Weather Station
Humanhood è il settimo album firmato con lo pseudonimo The Weather Station da Tamara Lindeman
Seguiamo con attenzione i bollettini meteo emanati in forma discografica dalla cantautrice canadese Tamara Lindeman dietro lo pseudonimo The Weather Station, in particolare da quando ha allargato i propri orizzonti sonori, divagando dal folk essenziale degli esordi.
Ignorance e How Is It That I Should Look at the Stars, album gemelli datati rispettivamente 2021 e 2022, ne avevano dilatato la visibilità, oltre a evidenziarne la vocazione da ecoattivista.
Nel nuovo lavoro, settimo della serie, quest’ultimo aspetto è più sfumato, come fosse un fondale, richiamato dalla narrazione subliminale svolta – su canovaccio da jazz a stile libero – in “Irreversible Damage” e appena accennato – definendosi “una della generazione che potrebbe portare questo mondo alla fine” – in un passo del brano dal quale la raccolta prende nome, animato da un ritmo vagamente esotico su cui arpeggia un banjo e la voce riverbera l’eco di Joni Mitchell, sua riconosciuta stella polare. Il testo rievoca un bagno nel lago Ontario in un “caldo giorno di merda”, ondeggiando fra “una mancanza di decisione, una visione troppo ingarbugliata, una vita troppo straziata, sacra e preziosa, però”.
In acqua galleggia pure “Ribbon”, malinconica ballata ispirata da una gita al fiordo di Saguenay, nel golfo di Saint Lawrence: “Il mio dolore è un canarino che canta nella miniera, cercando di tenerti in vita”, intona sommessamente la protagonista sulla trama disegnata da un piano impressionista.
Movente emotivo di Humanhood, intitolato con un desueto vocabolo riferito alla condizione umana, è il tormentato transito esistenziale affrontato dall’autrice alla soglia dei 40 anni: “Sembrava una seconda adolescenza, tipo pubertà: brutta, marcia, cattiva, disgustosa; non stai bene, ma ne vieni fuori”, ha confessato lei stessa a “Mojo”. Eccola dunque muoversi, “sganciata dalla realtà”, fra “cartelloni spiritosi e design di lusso”, allettata da “ingannevoli insegne al neon”, elenca con accento confidenziale sulla cadenza spedita di “Neon Signs”, avendo per interlocutore un flauto.
Attorniata da strumentisti della scena locale già notati al suo fianco nei dischi immediatamente precedenti, ai quali si aggiungono nella circostanza il chitarrista inglese James Elkington e il cantautore statunitense Sam Amidon, Lindeman conferma di possedere un’intelligenza musicale non comune, ad esempio nel sofisticato numero pop imbastito in “Window”, segnato tuttavia dalle cicatrici di una crisi sentimentale: “Cosa ci faccio in piedi stordita sul mio pianerottolo, un cambio di vestiti impacchettato frettolosamente e in mano la chiave di qualche appartamento freddo?”.
Al contrario, introdotto da un bordone d’organo ecclesiale, ha portamento elegiaco “Body Moves”, che di una relazione costituisce l’epitaffio: “Il tuo corpo ti ha ingannato, il tuo corpo ti ha allontanato e ora non puoi più tornare a casa”.
Il groviglio di negatività – “Giorni senza meta, malumori, cambiamenti cui non riesco ad abituarmi” – viene dipanato all’epilogo, nell’incantevole “Sewing”, dove la metafora del cucito indica una terapia quando è “troppo tardi per la perfezione, per ripulire il disordine, troppo tardi per riprendere tutto”: “Sto cercando di mostrarvi qualcosa che ho visto e non riesco a spiegare”, dice verso la fine, rasserenata.