L'autunno di Bon Iver

Il nuovo album di Justin Vernon / Bon Iver, i,i, replica con pochi guizzi una formula di successo

Bon Iver - i,i - nuovo album
Disco
pop
Bon Iver
i, i
Jagjaguwar
2019

Comincia con rumori da studio il nuovo album di Bon Iver, e le prime parole pronunciate sono: «Stai registrando, Trevor?».

Accadeva mesi fa al Sonic Ranch, in Texas, dove il trentottenne Justin Vernon si era trasferito per preparare il quarto album marchiato – appunto – Bon Iver, distanziandosi – cosa mai avvenuta in precedenza – dal beneamato Wisconsin, finora sede delle operazioni. Frattanto, nell’arco di una dozzina di anni, Vernon è diventato icona riveritissima: l’“alternativo” di successo (nel 2012 ha conquistato un paio di Grammy Awards) riconosciuto dai suoi pari, tipo i Low, e al tempo stesso concupito dal mainstream, personificato da Kanye West, gli uni e l’altro approdati agli April Base Studios di Fall Creek, ex clinica veterinaria trasformata in suo quartier generale.

Un marchio di fabbrica, praticamente, quel nome d’arte derivato da una storpiatura del francese bon hiver. Alla stagione invernale era consacrato il lavoro d’esordio, For Emma, Forever Ago, mentre i seguenti Bon Iver e 22, a Million traevano spunto rispettivamente dalla primavera e dall’estate, ragion per cui – precisa con puntiglio la campagna di comunicazione – siamo adesso al capitolo autunnale. L’interessato aggiunge poi che i, i – pubblicato in rete l’8 agosto, sta per diventare oggetto fisico – è «il mio disco più adulto e completo».

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Di sicuro il più ambizioso, se vale come unità di misura lo schieramento di forze: un’abbondante quarantina i musicisti coinvolti e oltre una ventina i tecnici (tra i quali la bresciana Marta Salogni, eccellenza nostrana oltremanica). Affiancano il protagonista nell’impresa i collaboratori abituali, accanto a partner di fiducia (da James Blake ai gemelli Dessner dei National) e inaspettati estimatori (Bruce Hornsby).

Ma forse la montagna ha partorito il topolino. Ascoltandolo, si ha la sensazione che la formula brevettata con profitto da Vernon si sia tramutata in una gabbia dorata. La voce, anzitutto, ondeggiante tra folk, gospel e occasionali cadenze hip hop, che al netto del celebre falsetto ricorda sovente il romanticismo rauco di Peter Gabriel, ad esempio in “Naeem”.

Al solito, ad accoglierla sono ricercate ambientazioni “avant-pop” in cui il fattore elettronico ha un rilievo spesso determinante: “iMi” esordisce con effetti glitch e sovraccarico di Auto-Tune, per svilupparsi quindi in modo lineare intorno a una melodia soffocata.

La poetica espressa nei testi, infine, ripete il gioco dell’elusività sibillina: “Cosa pensi che stiamo addomesticando con le torri e il remo”, intona Bon Iver in “We”, oppure “Cado giù da un fuoribordo da pesca e il cemento è molto lento”, nella citata “Naeem”, alternando mitologia greca – l’Eneide fornisce a “Holyfields” Evandro e i Campi Elisi – ed espressionismo di Weimar, simboleggiato in “U (Man Like)” da Jenny, prostituta ne L’opera da tra soldi, fino a coniare l’ineffabile neologismo anorberic in “Salem”, ballata con accenti esotici e solenne sviluppo orchestrale.

Non sempre l’ispirazione sorregge in maniera adeguata architetture tanto complesse: il dolente madrigale di “Sh’Diah” (contrazione di Shittest Day in American History, riferito al giorno dell’elezione di Trump) sfocia in un epilogo di sassofono che sa malinconicamente di Fausto Papetti.

Di memorabile c’è invece “Hey, Ma”: infuso di pathos adeguato all’evocazione a cuore aperto della figura materna, svetta di gran lunga quale apice della raccolta.

Benché sia album dotato d’indubbio pregio formale, insomma, i, i è a conti fatti il meno convincente realizzato fin qui da Justin Vernon. Peccato.

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