L'ascensione di Sufjan Stevens

Spleen ed elettronica nel nuovo album The Ascension, atteso seguito di Carrie & Lowell

Ascension - Sufjan Stevens nuovo album
Disco
pop
Sufjan Stevens
The Ascension
Asthmatic Kitty
2020

Eravamo rimasti a Carrie & Lowell, cinque anni fa: dolente ma vibrante elegia in memoria della madre scomparsa da poco; ossia, Sufjan Stevens al suo meglio. Da allora, in verità, Sufjan non è stato con le mani in mano: un live, un disco di outtakes da Carrie & Lowell, le musiche per il balletto The Decalogue con il pianista Timo Andres e il recente Aporia insieme al patrigno Lowell Brams, che con lui creò nel 1999 l’indipendente Ashtmatic Kitty, da sempre editrice dei suoi dischi. Senza dimenticare il contributo offerto a Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, estimatore confesso.

– Leggi anche: Sufjan, ascoltare con pudore

Ma questo è il nuovo album “vero”, ottavo della serie. E ha stazza (15 brani per circa 80 minuti di durata) e propositi ambiziosi. Lo aveva premesso, aprendogli il varco in estate, “America”: affresco di un paese sull’orlo di una crisi di nervi.

Compulsandone il testo, si colgono i dubbi che attanagliano l’autore, un uomo “a pezzi” e “sconfitto”: “Mi vergogno ad ammettere di non credere più”, che detto da chi si professa cristiano fa un certo effetto. Anche se la delusione riguarda l’oggetto del titolo: “Non fatemi ciò che avete fatto all’America”, la frase ricorrente. Una canzone epica, che nasce quieta per sfociare in un imponente crescendo corale e sfumare infine in un amniotico bagno di sonorità ambient. La costruzione è pressoché interamente elettronica, come il resto dell’opera d’altronde. Scelta ribadita in modo ancora più netto dal secondo episodio reso pubblico, “Video Game”: garbato ed efficace numero techno pop che metta alla berlina i social media, benché schieri nel relativo clip Jalaiah Harmon, star di TikTok.

Non sorprenda l’ostentata contraddittorietà: The Ascension ne è pieno, poiché fotografa appunto “lo stato dell’Unione”, confederazione cui il quarantacinquenne cantautore di Detroit sembrava in origine intenzionato a rendere omaggio celebrando discograficamente le 50 stelle della bandiera, salvo fermarsi dopo essere transitato in Michigan (2003) e Illinois (2005). «Era un espediente promozionale», tagliò corto all’ennesima obiezione sull’argomento. A quei tempi aveva sembianze da menestrello lunatico e tutti o quasi se ne innamorarono. Poi però arrivò nel 2010 The Age of Adz con la sua grandeur artificiale e lo scenario mutò repentinamente.

È a quel precedente che Stevens si ricollega ora, «stufo della musica folk», ha affermato in una recente intervista a cuore aperto concessa a “The Atlantic Magazine”, dove confidava inoltre: «Sono cambiato. Sono più vecchio e stanco della vita: esausto e disincantato. Mi sono immusonito». Per concludere, spiegando il senso del lavoro che stiamo esaminando: «Sono intrinsecamente pessimista e in The Ascension, per la prima volta in assoluto, ho espresso con onestà la mia visione del mondo». E dunque: «Fatemi un’offerta che non possa rifiutare», recita l’intestazione della traccia che inaugura la sequenza menzionando Il padrino, e “Goodbye to All That”, per chiudere la love story con New York alla maniera di Joan Didion, che firmò l’omonimo saggio nel 1967, fra una razione di psicofarmaci (“Ativan”, che noi chiamiamo Tavor) e una di zucchero, antidoto a “tutta la merda che hanno cercato di somministrarci”.

Esteso esercizio pop, quest’ultimo, e tuttavia segnato da uno spleen irrimediabile, che in definitiva rappresenta la cifra emotiva prevalente nell’opera. “E adesso?”, domanda all’epilogo il pezzo che la intitola. Ci si può dileguare: “Run Away With Me”. O cercare conforto nell’amore: “Tell Me That You Love Me”. E comunque: “Ora che è troppo tardi per morire giovane, beh sono proprio contento di essere ancora vivo”, riconosce in “Goodbye…”. Ha l’aria di uno sfogo, The Ascension: in quanto tale prolisso in misura torrenziale.

 

A riscattarlo dagli eccessi rimane lo spontaneo talento melodico del protagonista, che affiora nitidamente qui e là, ricordandoci la grandezza di Sufjan Stevens: eroe malinconico tipo Gilgamesh, archetipo evocato non a caso nel brano che porta il suo nome.

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