Lafawndah, Björk in Persia

Ancestor Boy rivela lo straordinario talento di Lafawndah, diva Apolide tra medio oriente, Messico, NY e Londra

Lafawndah
Lafawndah
Disco
pop
Lafawndah
Ancestor Boy
Concordia
2019

Di che pasta sia fatta Yasmin Dubois alias Lafawndah è dimostrazione la copertina dell’ep targato Warp risalente a tre anni fa, Tan (la vedete qui sopra). La ritrae mentre ingoia una daga: immagine autentica (niente fotoritocco, insomma), al tempo stesso minacciosa e sensuale. Fa il medesimo effetto la musica di cui è artefice, compiutamente espressa nell’album d’esordio, intitolato a un “giovane progenitore”: sfalsamento di senso che rispecchia l’identità insieme arcaica e avveniristica dell’opera, in qualche modo risultante del complesso tragitto biografico della protagonista, apolide votata al nomadismo.

Nata in Iran con sangue egiziano nelle vene, cresciuta fra Teheran e Parigi, emigrata poi a New York transitando da Messico e Guadalupa, per stabilirsi infine a Londra: «Cerchi costantemente la prossima casa per metterti alla prova in contesti differenti», ha affermato Lafawndah in un’intervista. In quella circostanza spiegava inoltre il significato dello pseudonimo scelto: uno dei modi per dire “cacofonia” in arabo. La convergenza d’influenze tanto diverse dà origine a quanto si ascolta in Ancestor Boy. L’episodio che gli dà titolo, ad esempio, è una sorta di gotico elettronico dove fluttuano schegge sonore di provenienza mediorientale. E il successivo “Storm Chaser” associa viceversa intonazioni melò a un martellare inquietante di percussioni.

In “Parallel” si ha quasi la sensazione di essersi imbattuti in un’incarnazione persiana di Björk, benché in coda il pezzo richiami il “quarto mondo” evocato nel 1980 da Jon Hassell. Un verso di quel brano recita: “Il sapore del tuo rossetto rimane sulla punta della mia lingua”. In “Daddy”, R&B che distilla spleen in ambiente rarefatto, canta invece: “Prendo le tue labbra così da poterti baciare sottosopra”.

Ardore carnale e algore concettuale: una dialettica che attraversa il disco da cima a fondo. “Substancia” la sintetizza efficacemente.

A tratti, comunque, il sentimento prende il sopravvento: accade in “Joseph”, un’astratta ninnananna in orbita intorno a Venere.

Il culmine è forse “Tourist”, però: ritmo intricato ed emotività multiculturale, come se M.I.A. avesse coronato la sua utopia globalista. Lafawndah ostenta dunque acume fenomenale e fascino irresistibile: si veda a tale riguardo lo scatto di copertina realizzato a Marsiglia.

E – a proposito – c’è pure una canzone in francese, “Vous et Nous”, in pratica costruita solo con le voci, duettando con l’amica Bonnie Banane su un bordone da torvo coro gregoriano, cosicché tra le analogie possibili affiora anche la tunisina a Tolosa Deena Abdelwahed, altra stella di un firmamento senza confini.

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