La seduzione insidiosa di Aldous Harding
Designer, terzo album della cantautrice neozelandese Aldous Harding, è dotato di uno strano fascino sibillino
Ascoltandole in modo distratto ci si potrebbe fare l’idea che si tratti di canzoncine pop senza grandi pretese: graziose, sì, ma sostanzialmente irrilevanti. Una cantautrice fra le tante, Hannah Harding, ribattezzatasi Aldous: ventottenne neozelandese figlia d’arte (la madre era folksinger dal discreto successo) giunta alla terza prova discografica, come la precedente – Party – prodotta da John Parish e distribuita dall’influente indipendente londinese 4AD.
Basta però prestare attenzione a ciò che canta per cambiare opinione. Ad esempio, su lieve arpeggio di chitarra e misurate guarnizioni al piano, in “The Barrel”, cui è spettato il ruolo di apripista: “L’onda dell’amore è un dolore transitorio, l’acqua è il guscio e noi siamo il nodo”.
Dal relativo video si comincia a percepirne l’eccentricità: abbigliamento, movenze, sguardo e quella maschera (!) suggeriscono una vaga sensazione di straniamento. L’esperienza si può ripetere con “Fixture Picture”, brano incaricato di aprire la sequenza: una ballata tenue e in apparenza carezzevole. A un certo punto dice: “Sono accesa, non sono mai avvampata così luminosamente. Com’è il vino dove vivi? Scommetto che è caro. Un giorno ne condivideremo un bicchiere insieme e cavalcheremo sulle dune”.
Un’opera di seduzione, ma dalla sua postura sensuale trapelano indizi inquietanti.
E dunque Designer è un disco degno di essere maneggiato con cura. Benché sia più solare del penultimo e meno scarno dell’esordio datato 2014, non è affatto innocuo come sembra. Dietro il garbo e l’eleganza della scrittura, qualità esemplificate nitidamente dall’episodio che gli dà titolo, si celano insidie sottili.
All’epilogo ecco “Pilot”, a proposito, elegia minimalista per pianoforte e canto: “Avrei voluto fosse bianco, ma ci vuole sangue per una nuova erezione. Cerco di essere leggera, smetto con le volgarità, ma sono codarda e aveva ragione Camus”.
Con stile incantevole, Aldous Harding imbastisce una messinscena dal tono impercettibilmente surreale (“Che ci faccio a Dubai? Nella primavera della mia vita, mi ami?”, durante “Zoo Eyes”, mentre la voce ondeggia fra un timbro basso alla Nico e un falsetto da Lolita), screziata da dubbi esistenziali (“La gente mi domanda sempre cosa voglio. La risposta è una sola: il paradiso è vuoto”, in “Heaven Is Empty”), con improvvisi squarci di vulnerabilità (“Puoi fare un po’ di spazio sulla sedia? Qualcosa a forma di scatola per una donna frivola”, all’inizio di “Damn”). A volte l’effetto è davvero sconcertante: in “Weight of the Planets”, a dispetto di un esotico andamento lounge, le parole comunicano apprensione (“Vedo nei tuoi occhi il peso dei pianeti e ne vengo risucchiata”).
Irretiti dall’atmosfera intimista e disorientati dai testi sibillini, si finisce per rimanerne incantati senza capire bene perché.