La meridiana afrofuturista di Noname
Sundial segna il ritorno della rapper Noname, nel segno di una black music radicale
A cinque anni di distanza dal precedente Room 25, la rapper di Chicago Fatimah Nyeema Warner, meglio conosciuta come Noname, fa il suo atteso ritorno con Sundial, raccolta di undici brani che raramente superano i tre minuti: se cinque anni fa chiudevo la recensione con la frase «Capolavoro? Se non lo è, poco ci manca», vi anticipo che l’attesa è stata premiata e quello che abbiamo tra le mani è un disco almeno allo stesso livello del precedente.
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Frutto del lavoro svolto a Los Angeles nel corso di diversi mesi, Sundial è il culmine di un’esplorazione condotta per anni dalla rapper di Chicago. L’album vede le collaborazioni, tra gli altri, di Common, Billy Woods, Jay Electronica, Ayon ed Eryn Allen Kane, mentre le produzioni sono affidate ai collaboratori di lunga data Saba, Gaetan Judd e Yussef Dayes.
Una curiosità: il disco è stato presentato il 17 agosto a Chicago nel corso del Sundial Block Party in collaborazione con il Noname Book Club.
L’ingresso era gratuito ma era suggerita la donazione di un libro; soprattutto di Blood in my Eye di George Jackson – uno dei fondatori della Black Guerrilla Family –, di Sula della scrittrice premio Nobel Toni Morrison o dei lavori di altri autori afro-americani, da far avere ai membri del club detenuti in prigione.
Suggerisco la visione di questo breve video per capire meglio che cos’è il Noname Book Club e qual è il senso di comunità e solidarietà per Fatimah.
Come già i due dischi precedenti, anche Sundial è distribuito in maniera totalmente indipendente e nel momento in cui scrivo non esistono video ufficiali di brani della raccolta: ci dovremo accontentare di quelli che propongono le canzoni con l’immagine fissa della copertina del disco.
Negli ultimi anni Fatimah è diventata via via più ostile online, disprezzando pubblicamente che una larga fetta della sua fanbase sia bianca e arrivando al punto di minacciare di non esibirsi più dal vivo per uditori soprattutto bianchi perché la sua musica non è fatta per loro – era il 2019, poi arrivò il Covid e il conseguente stop alle esibizioni dal vivo mise la questione in soffitta.
In quanto persona per cui spesso tematiche afrocentriche sono state componenti importanti della propria musica, probabilmente ha sempre trovato strano che la maggior parte dei suoi ascoltatori sia bianca, però non può negare che molta della musica che ha realizzato avesse le caratteristiche per piacere a un tale pubblico. Se cerca di alienarsi ulteriormente le simpatie della sua fanbase bianca, perderà inevitabilmente la maggioranza dei propri ascoltatori: se è ciò che vuole, nessun problema e sia quel che sia – non sarà certo questo a fermare la mia analisi di questo nuovo progetto, curioso di capire cosa ha messo in tavola questa volta.
«Credo che uno degli errori più grandi che abbiamo fatto nella nostra lotta per la liberazione in questo Paese sia stato quello di permettere all’America bianca l’accesso senza filtri alla nostra intera cultura» - Noname
Sundial si posiziona all’intersezione tra arte, commercio e attivismo, è una riflessione sui costi da affrontare per perseguire obiettivi di diversa natura. Undici canzoni dicevamo, lungo le quali Noname si irrita con il business della “vendita del dolore”, fornendo sfide ai suoi compagni, ai suoi fan e a sé stessa.
Ne è un esempio “Balloons”, critica severa degli apprezzamenti verso la musica sulla sofferenza: «In una terra prima della terra, club sudici e Narcan / Casuali fan bianchi, chi ha inventato il voyeur? / Affascinati dal lutto, sperano che il trauma la distrugga / Perché tutti amano una buona canzone triste, un album oscuro? / Tipo, dimmi del tuo amico morto / Tua madre morta, tuo fratello sanguinante per strada / All’angolo dove ci sono un Walgreens e un White Castle».
“Hold Me Down,’ brano che vede la presenza di Jimetta Rose & Voices of Creation, esempio di jazzy hip hop, ha un suono semplice ma di grande impatto e la melodia trasmette una sensazione gioiosa, malgrado il testo molto combattivo in cui accusa i bianchi e il precedente Presidente Obama di trattenere e opprimere la gente afro-americana, invitando a gran voce quest’ultima a combattere insieme contro questa oppressione - «il primo presidente nero, e lui ci ha bombardato». E ce n’è anche per Jay-Z, Beyoncé, Rihanna e Kendrick Lamar – quest’ultimo attaccato in maniera specifica in “Potentially the Interlude” -, colpevoli ai suoi occhi di aver partecipato al Super Bowl, secondo lei un evento che glorifica le forze armate statunitensi.
A onor del vero Noname non fa sconti neanche a sé stessa quando ammette di non essere orgogliosa di aver accettato di esibirsi al Coachella.
“Boomboom” è la canzone più upbeat della prima parte della raccolta – “Toxic” è il suo corrispettivo nella seconda parte -, vede una gran performance di Ayoni, un po’ sulla scia di Beyoncé, e ha un testo sessualmente esplicito, finalizzato a dipingere il sesso come una via verso la libertà.
In tutto Sundial Noname alterna la prima e la terza persona, espediente che le permette di giudicarsi da nuove prospettive: ne è un esempio potente “Beauty Supply”, esaltazione della bellezza nera, in cui compare il verso «Voglio solo essere l’amore della mia vita / mettere da parte il mio standard e davvero esigere il suo».
“Afro Futurism” è la canzone più euforica e spensierata dell’album, nonché quella più specificatamente “hip hop” con la già citata “Hold Me Down”, con un beat memore degli anni novanta su cui Noname, con una performance vocale volutamente minimizzata, “rappa” su come i neri abbiano bisogno di combattere contro il sistema, visto che quest’ultimo non combatte per loro.
Il suono celestiale di “Afro Futurism” continua decuplicato in “Gospel?”, brano che vede la presenza di $ilkMoney, Billy Woods e STOUT. Il titolo è assolutamente azzeccato in quanto ha una melodia trionfante che ci ricorda i canti tipici delle chiese e il coro che completa il riff del piano ci mette di buon umore mentre aspettiamo il beat. Tutti e tre i rapper parlano di come la gente nera sia stata oppressa e sfruttata nel mondo occidentale e della sua volontà di tornare alle radici e di costruirsi in quanto razza.
Il compito di chiudere l’album spetta a “Oblivion”, canzone con la partecipazione di Common e Ayoni: lo stile duro e scuro è quello del jazz che ha caratterizzato la parte centrale di Sundial. Noname e Common assicurano che non chiederanno scusa per essere le persone che sono e che cercheranno sempre di esprimere i loro messaggi: anche se il mondo combatte contro di loro, cercheranno sempre di lottare per ciò che pensano che sia giusto.
Come ricordato dalla rivista Stereogum, una ventina di anni fa Ishmael Butler di Shabazz Palaces predisse che «l’età dell’oro è davanti a noi». Forse ci siamo: artisti come Noname, Armand Hammer, Moor Mother, Earl Sweatshirt (a proposito, bella la sua collaborazione con The Alchemist, Voir Dire, scaricabile gratuitamente su Bandcamp), Danny Brown e Open Mike Eagle contribuiscono a rendere memorabili gli ultimi anni del rap. Sono riusciti a elevare l’arte dell’emceeing utilizzando parole e ritmi per dipingere quadri verbali che sfidano la nostra idea della condizione umana. Come Earl Sweatshirt enunciò nel 2019, «Il rap è musica degli schiavi e la comunicazione degli schiavi era cifrata, espressa in codice, e questa è la nuova versione di quel processo». Sundial è criptico by design ma riesce comunque a evitare di risultare elitario.
Anni fa i Public Enemy invitavano a informarsi su «what time it is», vale a dire a conoscere il mondo che ci circonda e i suoi meccanismi: bene, anni dopo Noname adotta lo stesso slogan, senza dimenticare di divertirci.