La conferma dei Fontaines D.C.
Il nuovo A Hero's Death dei Fontaines D.C. amplia lo spettro sonoro dell'ottimo Dogrel
A un solo anno di distanza dal precedente Dogrel, A Hero’s Death conferma le qualità dei Fontaines D.C.; anzi, con l’allargamento dello spettro sonoro e un’attenzione ad atmosfere più oscure, risulta persino superiore, a conferma che la “sindrome del secondo album” può essere superata.
Per quanto mi sia sforzato di pensarci, non ho individuato un altro gruppo indie che negli scorsi dodici mesi abbia conquistato un successo mondiale come i Fontaines D.C.: da cinque ragazzi di Dublino amanti delle sonorità punk e delle poesie di Yeats ai passaggi sulle frequenze della BBC e ai concerti esauriti in giro per il mondo (il tour inglese del prossimo maggio sta avendo così tante richieste che si sono già dovute aggiungere delle date). Ce n’è abbastanza per perdere il contatto con la realtà e infatti, complice un abuso di alcol da parte dei cinque, il gruppo è arrivato sull’orlo dell’implosione. Per fortuna tutta la tensione è stata incanalata nella registrazione dei brani, svoltasi a Los Angeles, e il lavoro è stato concluso a South London, con il missaggio e la produzione del solito Dan Carey, già conosciuto per il suo lavoro con Hot Chip e Franz Ferdinand.
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Il 5 maggio l’attesa si conclude, esce il singolo “A Hero’s Death”, con quella frase ripetuta come un mantra dal sapore ironico “la vita non è sempre vuota”, una canzone sulla gioia e la disperazione della gioventù, perfetta per questi tempi in cui i più giovani fanno fatica anche solo a intravedere un possibile senso della vita – i più anziani se non altro possono ricorrere all’aiuto dei Monty Phyton. Eccolo nella versione registrata per la televisione irlandese RTE, in cui il cantante Grian Chatten indossa una maglietta dei Pogues.
A inizio agosto arriva infine l’album, dallo stesso titolo: undici brani con un andamento, come già accennato, più variegato e la presenza di alcune ballate. Non c’è il tentativo di ricreare banalmente le atmosfere di Dogrel, tentando così di replicarne il successo: in questo secondo album i cinque mettono a nudo i loro sentimenti, senza dimenticare la loro pungente ironia irlandese. Se il primo album si apriva con la rumorosa “Big”, canzone assurta allo status di inno nei loro concerti, questa volta il compito di apripista spetta a un basso debitore nei confronti di Peter Hook e alla voce di Chatten che ci avverte che lui non appartiene a nessuno.
La seguente “Love is the main Thing”, con la sua batteria implacabile e le sue chitarre distorte, ha un testo disperato ma venato da una sottile ironia e il risultato è una delle vette della raccolta, insieme ai due brani già citati, a “A Lucid Dream”, tornado sonoro in cui si apprezza particolarmente il lavoro del basso di Conor Deegan, alla ballata melanconica e sognante “Oh Such a Spring”, dove, come in “Sunny”, fanno addirittura capolino i Beach Boys, a “I Was not Born”, una sorta di “Waiting for the Man” come potrebbe cantarla John Lydon, e alla conclusiva “No”, ballata che strizza l’occhio al mainstream, perfetta com’è per essere cantata davanti a un falò in spiaggia, “sei innamorato e poi non lo sei più, tutti quanti sappiamo che cosa ci porta la libertà, le orrende canzoni che ci costringe a cantare”.
«Sei pronto ad accettare di essere chiunque altro a parte te stesso/ loro vogliono soltanto venire dove ti esibisci e sentirti cantare», "A Lucid Dream"
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Dove il primo album era tagliente come la lama di un rasoio, A Hero’s Death è più sfaccettato, più “pensato”, a dimostrazione di una raggiunta maturità compositiva, un disco che parla del presente facendo spesso ricorso a sonorità del passato, non un semplice citazionismo ma la consapevolezza di un grandioso e ineludibile passato, per alcuni versi gravoso, come pietra angolare per nuove costruzioni. Per il momento il risultato è davvero eccellente.
«Ecco i giovani uomini, il peso sulle loro spalle», Joy Division, “Decades”