Khruangbin e la musica del mondo
I texani Khruangbin perfezionano il proprio easy listening cosmopolita nel nuovo album Mordechai
Il chitarrista Mark Speer sostiene che i Khruangbin creano “musica della Terra”, intendendo rappresentare in quel modo l’attitudine cosmopolita che li conduce verso una bizzarra specie di sincretismo sonoro simboleggiato dall’intestazione esotica: vocabolo che in thailandese equivale ad “aeroplano”.
Difficile posizionarne allora lo stile in senso geografico, visto il fitto intreccio d’influenze nel quale finiscono per coesistere mellifluità soul, vibrazioni dub, ritmiche da Africa Occidentale, cromatismi psichedelici, echi d’Oriente – Medio ed Estremo – e anima latina. Né si può dire sia strettamente attuale in chiave cronologica, avendo un pronunciato sapore vintage. Il trio texano fa dunque storia a sé e – a uno sguardo distratto – potrebbe essere considerato un classico prototipo di “cult band”. Le cose stanno diversamente, però: lo certificano i numeri (circa quattro milioni di streaming mensili su Spotify e un “sold out” da cinquemila spettatori all’O2 Academy Brixton di Londra a dicembre) e il rango di alcuni estimatori, su tutti il Re Mida dell’hip hop Jay-Z. Caso vuole che la consorte di quest’ultimo, Beyoncé, insieme alla sorella minore Solange, frequentasse la medesima chiesa metodista di Houston dove Speer e il batterista Donald “Dj” Johnson si erano fatti le ossa in gioventù a suon di gospel.
Completa l’organico Laura Lee Ochoa: bassista con portamento da femme fatale e adesso pure cantante. Poiché in Mordechai – terzo album in una serie avviata nel 2015 con The Universe Smiles upon You e proseguita nel 2018 da Con Todo el Mundo – la novità sta appunto nella voce, in precedenza pressoché assente e qui quasi onnipresente, ovviamente al servizio di varie lingue: in prevalenza inglese, ma anche francese – nella sensuale ballata modello Gainsbourg, epoca Melody Nelson, “Connaissais de Face” – e spagnolo, per l’ancheggiante cumbia intitolata “Pelota”.
Fra i gioiellini che impreziosiscono il disco notiamo quindi “One to Remember”, che trasuda spleen da spiaggia giamaicana, l’indolente “exotica” di “Dearest Alfred” e il tenue fremito funk di “Time (You and I)”.
Delizioso il dittico posto all’epilogo, aperto dall’ectoplasma afro pop di “So We Don’ Forget” e chiuso con garbo ed eleganza da “Shida”.
È senz’altro “facile ascolto” ciò che offrono i Khruangbin, ma abbandonandocisi se ne apprezza l’impagabile effetto disintossicante.