James Blake dallo spleen al mainstream
Assume Form è il quarto album del produttore londinese: un capolavoro a tinte pastello
Quante cose fa fare l’amore… Nel caso di un musicista, ispira canzoni. Vale per James Blake, il cui nuovo lavoro è influenzato esplicitamente dalla relazione con Jameela Jamil, conduttrice radiofonica divenuta attrice e modella. Ciò ha reso il suo linguaggio meno ombroso di quanto fosse nei tre album precedenti.
Intendiamoci, lo stile caratteristico del trentenne produttore londinese rimane comunque ancorato a un umore malinconico, la “musica da ragazzo triste” alla quale si riferiva mesi fa l’influentissimo “Pitchfork” a proposito del singolo “Don’t Miss It”, suscitando la replica piccata dello stesso Blake: «Espressione malevola e discutibile, se usata per descrivere uomini che parlano apertamente dei loro sentimenti".
In verità, quell’episodio – una lirica elegia minimalista – rappresenta in modo relativo la natura dell’opera, a tratti insolitamente solare, com’è ad esempio nel soul a cuore aperto di “I’ll Come Too”, dove si segnala – per l’orgoglio campanilistico – un campionamento da “La contessa, incontro” di Bruno Nicolai (dalla colonna sonora del film erotico del 1969 Love Birds), o nell’alato doo wop futurista di “Can’t Believe the Way I Flow”.
Un voltafaccia che ha indispettito il sopraccitato web magazine, inducendo una stroncatura basata sull’accusa di “un grande alleggerimento” (non va bene se è afflitto, ma nemmeno il contrario: qual è il problema?). Evidentemente la transizione dalla cameretta delle pene giovanili agli attici del mainstream di questo giovanotto dall’animo sensibile e introverso, capace di elevare a valore la vulnerabilità, ha provocato qualche contraccolpo.
Figura richiestissima dall’aristocrazia pop contemporanea (Beyoncé, Jay-Z, Kanye West, Frank Ocean e Kendrick Lamar, nell’agenda delle sue collaborazioni), James Blake ha saputo esportare la propria cifra stilistica – una sorta di versione astratta della club culture, tipo un Brian Eno appena uscito da un rave – oltre i confini del fenomeno di culto, qual era agli esordi d’inizio decennio. Assume Form ne certifica lo status: introdotta dal melò controllato – piano impressionista, ritmo narcotico, voce fragile – del pezzo che gli dà titolo e rivela l’essenza della metamorfosi (“Lascerò l’etere, prenderò forma”), la sequenza prosegue indugiando sull’atavica passione per l’hip hop, simboleggiata dalle due produzioni firmate dal Re Mida della trap Metro Boomin, “Mile High” (con il rapper texano Travis Scott) e “Tell Them”, quest’ultima screziata da venature gitane che più in là diventano ingrediente principale, quando entra in scena – per duettare con il protagonista nell’incantevole “Barefoot in the Park”, imparentata all’omonima commedia romantica scritta nel 1963 da Neil Simon, poi al cinema per mano di Mike Nichols – la giovane diva catalana del flamenco di nuova generazione Rosalìa.
L’insieme è dunque gradevolissimo, ancorché velato da un diafano alone di spleen: un disco semplicemente delizioso.