Il fuoco sacro di Thurston Moore
In By the Fire l’ex Sonic Youth Thurston Moore raggiunge l’apice della produzione da solista
Registrato durante l’inverno e ultimato al principio della quarantena, il nuovo album del sessantaduenne Thurston Moore, icona assoluta della scena alternativa dall’epoca dei Sonic Youth, è un’opera immersa nel tempo corrente. Introducendola, l’autore ha spiegato: «Sono canzoni d’amore in un momento in cui la creatività è la nostra dignità, la nostra sfida alle forze dell’oppressione».
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Emblematica è “Breath”, con “angeli neri che avanzano su binari di polvere”: parole caricate ora di maggiori significati, poiché incidentalmente sembra alludano al lamento soffocato di George Floyd. Osservando gli Stati Uniti dalla sponda opposta dell’Atlantico, dov’è espatriato nel 2013 prendendo dimora a Londra, il musicista newyorkese ne coglie il drammatico travaglio in atto, percependo la necessità di «cambiamento radicale e consapevolezza collettiva», come dichiarato nella presentazione di By the Fire. Eppure la trama narrativa definita dai testi esprime emozioni di genere differente: il sogno erotico descritto nell’iniziale “Hashish”, rielaborando la “sregolatezza dei sensi” evocata un secolo e mezzo fa da Arthur Rimbaud nella “Lettera del Veggente”, ad esempio.
La dimensione lirica del lavoro, alla quale non è estraneo Radieux Radio, artista transgender già al fianco di Moore nel precedente Rock’n’Roll Consciousness e qui contitolare di due terzi dei brani, viene riaffermata poi in “Dreamers Work”: apologia dei sognatori in cui si citano Dante e Baudelaire. Ed è impressionante d’altro canto il tono biblico, da Antico Testamento, di “Cantaloupe”: “Il primo giorno egli ti ha dato in pasto una stella (…) Il secondo giorno abbiamo tracciato strisce lampeggianti sul tuo schermo (…) Il terzo giorno sei ritornato con un laccio d’argento intorno al collo”.
Musicalmente si tratta dell’episodio all’apparenza più convenzionale del lotto: un solido bastione eretto al crocevia fra grunge e heavy metal. Là si manifesta l’istinto rock che anima il protagonista: elemento dialettico rispetto all’attitudine sperimentale testimoniata dalla consuetudine all’improvvisazione (memorabile la session dal vivo insieme al gigante della free music Evan Parker durante il festival Jazz Is Dead!, nel maggio 2019 a Torino), simboleggiata nella circostanza dalle sezioni “senza schema” dei pezzi più estesi: l’epilogo strumentale “Venus”, ispirato ad Alice Coltrane, l’epico e imponente “Locomotives”, che nell’arco di quasi 17 minuti alterna abrasivi riff di chitarra, cadenze tribali ed eruzioni rumoriste alla maniera dei migliori Swans, e soprattutto “Siren”, ballata dall’umore elegiaco – in onore del festival omonimo che si teneva a Vasto – risucchiata a metà strada in un vortice di entropia sonora.
Sostenuto efficacemente da una band di vecchie conoscenze (il batterista Steve Shelley, reduce pure lui dai Sonic Youth, Debbie Googe, bassista nei My Bloody Valentine, e Jon “Wobbly” Leidecker dei situazionisti californiani Negativland, responsabile delle malevole interferenze elettroniche in “They Believe in Love”), Thurston Moore firma così il sesto disco da solista: finora apice della sua produzione individuale e allineato ai livelli raggiunti dal gruppo che lo ha reso celebre.