Earl Sweatshirt is sick
Sick! è il nuovo album di Earl Sweatshirt, che si conferma uno dei migliori rapper in circolazione (anche quando parla di Covid)
Sì, il rapper originario di Chicago è malato, è stufo, ma allo stesso tempo è fichissimo. S’intitola infatti Sick! il quarto album in studio del rapper originario di Chicago e mi ha permesso di giocare sui diversi significati possibili del termine sick.
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Dopo il notevole Some Rap Songs del 2018 e l’altrettanto considerevole EP Feet of Clay dell’anno seguente, Sick! riconferma Thebe Neruda Kgositsile – questo il vero nome di Earl Sweatshirt – come uno dei migliori rapper in circolazione: questa volta la produzione è meno lo-fi, «è più diritta e canonica, meno drogata», come mi ha detto in maniera colorita ma efficace il musicista nonché amico Paolo Spaccamonti.
Dieci canzoni, o forse farei meglio a dire dieci frammenti che in ogni caso compongono un quadro di più facile lettura rispetto al precedente Some Rap Songs, una durata che non supera la mezz’ora, Zelooperz e Armand Hammer come unici ospiti e la produzione affidata a Black Noi$e, The Alchemist, Theravada, Rob Chambers, Ancestors, Samiyam e Alexander Spit: direi che è arrivato il momento di cominciare ad “ammalarci”.
2015: I don’t like shit, I don’t go outside, 2022: everyone's sick, I can’t go outside; sono passati sette anni e bisogna aggiornare il titolo del suo secondo album: da “non mi piace ‘sta merda, non esco” a “sono tutti malati, non posso uscire”. Ovviamente il Covid è uno degli argomenti del disco, insieme a quello della paternità – eh sì, nel frattempo Thebe è diventato papà –, fa capolino in ogni canzone facendo riferimento a mascherine, vaccini e isolamento. In copertina è raffigurato un busto in argento di Earl con una mascherina chirurgica proprio sotto il suo naso e intorno al suo mento.
Earl stava registrando un disco molto diverso quando improvvisamente la pandemia ha cominciato a colpire duramente, ed ecco la decisione di spostare il focus , “aiutata” anche dalla perdita del computer contenente le 19 canzoni del progetto originario, a quanto pare dal tono più ottimistico: si sono salvati solo gli archi che danno un’atmosfera magica all’iniziale “Old Friend” e alcune parti di “Tabula Rasa” in cui compare anche Armand Hammer, vale a dire il duo formato da Billy Woods ed Elucid, con, se non sbaglio, il campionamento della voce di Annie Lennox. In un recente comunicato stampa Earl ha aggiunto un nuovo particolare: il progetto avrebbe dovuto chiamarsi The People Could Fly – dal titolo del libro di Virginia Hamilton che sua madre era solita leggergli quando era bambino – ma, quando la pandemia ha impedito alla gente di volare sugli aeroplani, ha deciso di scartare la maggior parte del lavoro già portato a termine, abbandonando di fatto il progetto.
Nel brano “2010”, che con la precedente “Old Friend” dà vita a una doppietta da paura, Earl fa riferimento, su una base quasi ambient, a un altro momento d’incertezza, a quando la sua crew Odd Future Wolf Gang Kill Them All, che comprendeva, tra gli altri, anche Tyler, The Creator, Domo Genesis e Frank Ocean, era in grande ascesa e davvero a un solo passo dal grande successo, ma sua madre venne a conoscenza del genere di musica proposto dal figlio e dell’uso di droghe e lo spedì in un collegio a Samoa, come ricordato anche in “Titanic”, altro episodio della raccolta.
Diceva Fela Kuti, e la sua voce si ascolta al termine di Sick!: Veramente l’arte è ciò che succede in un momento particolare dello sviluppo o del sottosviluppo di un popolo, capite? La musica non può essere per il divertimento, la musica deve essere per la rivoluzione».
Nel caso di Earl è più una rivoluzione personale: dopo anni psicologicamente pesanti, per altro sempre accompagnati dal culto del suo pubblico – qualcosa che lui non si sentiva in grado di ricambiare – e sfociati in una pesante dipendenza dall’alcol, oggi Earl sembra pacificato, meno egoista e più disponibile, e questo nuovo atteggiamento si riflette nella sua musica attuale, più accessibile sebbene essenziale.
Sick! ha una produzione impeccabile che ben si sposa con il flow cantilenante ma verbalmente ineccepibile di Earl; un disco breve ma creativo, al cui interno c’è un universo intero da esplorare, coi suoi dettagli stratificati che costringono ad ascolti ripetuti e che ogni volta ci premiano col brano finale “Fire in the Hole”.