Cate Le Bon, le canzoni come suppellettili
Il quinto album della gallese Cate Le Bon è un ricercato esercizio di avant-pop
L’idea che la musica pop possa essere d’avanguardia è in sé un ossimoro, poiché un’attitudine sperimentale poco si confà ai consumi di massa. Eppure accade piuttosto sovente che si parli di “avant-pop”, volendo descrivere in quel modo un utilizzo anticonformista di canoni largamente condivisi.
Un valido esempio è il nuovo album della trentaseienne gallese Cate Timothy, rinominatasi in arte Le Bon: quinto della serie in un decennio di attività, più accomodante e gradevole rispetto ai precedenti, forse perché costituito da pezzi composti al piano anziché alla chitarra elettrica. O magari essendo frutto del cambiamento di vita da lei operato trasferendosi – dalla California dov’era emigrata anni fa, trovando in zona intelligenze affini in Tim Presley dei White Fence e nei Deerhunter, ed è tornata per registrare questa decina di brani – nell’habitat rurale della Cumbria, nel nord Inghilterra, e specializzandosi nella fabbricazione di elementi di arredo.
Canzoni tipo suppellettili, allora? Fosse così, ostentano design originale e lavorazione raffinata. Prendiamo “Daylight Matters”: ha portamento classico, sfumature malinconiche e fascino senza tempo, nel senso che potrebbe arrivare indifferentemente dagli Sessanta o dagli Ottanta, se non addirittura da un imprecisato futuro.
E subito dopo, in sequenza, a proposito di effetto “vintage”, giunge “Home to You”: ballata dal tono garbato, dotata di uno charme diafano ma irresistibile.
In ambedue i casi c’è qualcosa in più – l’ambizione formale – e qualcos’altro in meno – il conforto del luogo comune – a differenziare il risultato dal già ripetutamente sentito: sembra rassicurante ma non lo è, insomma. Dovendo immaginare analogie, penseremmo agli Stereolab e alla maniera impareggiabile che avevano (e in verità hanno, visto il ritorno in scena) d’impiegare ingredienti noti ricavandone ricette inedite. Danno quella sensazione episodi quali “Magnificent Gestures” (con un cammeo di Kurt Vile), dalla postura quasi surrealista, e l’iniziale “Miami”, che fra solennità “prog” e movenze aristocratiche rivela il mutamento in atto nell’esistenza della protagonista: “Mai essere di nuovo la stessa, proprio no”, per poi aggiungere – spiegando l’intestazione della raccolta – “amore trascurato per ricompensa”.
Con versi a tratti sibillini, Cate Le Bon indugia alla fin fine sulle sofferenze sentimentali, lasciandosi scappare a un certo punto, nella citata “Daylight Matters”, un esplicito “Ti amo ma non sei qui, ti amo ma te ne sei andato” e titolando lapidariamente “You Don’t Love Me” la penultima traccia: lo fa tuttavia con grazia metafisica, come parlasse d’altri, con sublime distacco.