Carnage, Nick Cave in lockdown

Carnage, primo disco di Nick Cave cointestato a Warren Ellis, è una raccolta di canzoni scure e senza conforto

Nick Cave Warren Ellis Carnage
Disco
pop
Nick Cave & Warren Ellis
Carnage
Goliath
2021

Come il feroce film firmato dieci anni fa da Roman Polanski: la carneficina cui allude Nick Cave ha tuttavia a che fare con i nostri giorni tormentati. La primavera scorsa Cave sarebbe dovuto andare in tour sulla scia di Ghosteen e invece – come tutti – si è ritrovato ostaggio del virus, impiegando il tempo a “leggere, scrivere compulsivamente e stare in terrazza a pensare”. Interrogato dai fan su quale fosse la sua reazione agli eventi, ha scritto sulla pagina web The Red Hand Files: «La mia risposta a una crisi è stata sempre creare» (l’aveva fatto persino dopo la morte del figlio Arthur).

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Ed ecco il risultato, plasmato con Warren Ellis, suo inseparabile partner musicale nei Bad Seeds, in Grinderman e nella composizione di colonna sonore destinate al cinema, qui per la prima volta cointestatario di un album di canzoni: otto in 40 minuti esatti. Reso disponibile ora sulle piattaforme digitali senza preavviso alcuno, Carnage assumerà consistenza fisica a fine maggio.

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Se in termini di contesto è gemellato a Idiot Prayer, testimonianza del concerto tenuto in solitudine all’Alexandra Palace di Londra, sul piano degli arrangiamenti – rarefatti e sovente sintetici – mostra piuttosto affinità con Ghosteen, trovando comunque specificità nella situazione in cui ha preso forma: «Una catastrofe collettiva», per usare le parole dell’autore. Ed è sorprendente, considerando i trascorsi di Cave, in genere refrattario ai temi dell’attualità, quanto il contenuto sia a tratti riferito esplicitamente alle cronache di questi mesi. Trasuda spleen da clausura il testo di “Albuquerque”, dolente ballata che entra di diritto nel canzoniere quintessenziale dell’artista australiano: “E non andremo ad Amsterdam o su quel lago in Africa, tesoro, non andremo da nessuna parte per tutto quest’anno”.

Assai più tetra e angosciante, “White Elephant” dispensa viceversa un flusso di coscienza nel quale galleggiano frammenti deformi di fatti recenti: la rabbia iconoclasta degli antirazzisti (“Un dimostrante s’inginocchia sul collo di una statua, la statua dice ‘Non riesco a respirare’, il dimostrante dice ‘Ora sai come ci si sente’ e la getta nel mare”), l’arroganza di Trump (“Il presidente ha chiamato i Federali”) e il brutale linguaggio delle armi (“Mai ti venisse in mente di avvicinarti, sparerò a quella tua faccia di cazzo”).

Altrove affiorano scorci autobiografici: nella dimensione quasi intimista del brano che dà titolo all’opera, il protagonista rivede sé stesso nell’infanzia (“Mio zio è al ceppo del boia, a trasformare polli in fontane, io sono un bimbo scalzo”) e nell’adolescenza (“Seduto in terrazzo a leggere Flannery O’Connor con una matita e un progetto”).

La natura apocalittica delle circostanze ispira infine evocazioni visionarie: “Una cosa con le corna arretra in mezzo agli alberi” (nel cupo fondale elettronico di “Old Time”) o “Una renna paralizzata dai fari arretra nel bosco” (ancora in “Carnage”). E vi sono immagini e argomenti ricorrenti: l’immanenza del Regno dei Cieli e l’inutilità di domandarsi “chi” e “perché” sia nella litania intonata nell’iniziale “Hand of God” sia fra gli archi mesti di “Lavender Fields”. Il medesimo narratore assume strada facendo sembianze paradossali: “Venere di Botticelli con un pene” (“White Elephant”) oppure “Fred Astaire”, all’epilogo, in “Balcony Man”. L’ultimo verso recita: “E ciò che non ti uccide, ti rende più folle”.

Carnage non offre dunque conforto, costituisce semmai una sfida: perciò suona straordinariamente rilevante e pertinente.

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