Zenia, il folk che non esiste

Una lingua inventata per un paese che non c'è: è il progetto Zenia

Suoni e storie di un paese immaginario
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C'è una comunità di persone che se ne sta incistata tra montagne e mare, un po' come certi paesini vertiginosi della Liguria orientale. La gente è curiosa è ospitale, offre cibo e riparo a chi arriva, mette volentieri a parte lo straniero delle proprie usanze: ad esempio quella per cui quando uno è preso dal mal d'amore, per pena o eccesso di felicità, lascia appese le scarpe, e si ritira nell'entroterra a meditare, cantare, pregare.

Ad ogni plenilunio può apparire una figura d'uomo pesce mascherato con conchiglie e sonagli, che invita alla festa e al cerchio della danza. Si fanno offerte di pane e acqua ai crocevia, per accattivarsi gli spiritelli naturali. E quando uno parte, si adorna l'albero della barca con oggetti in regalo, appesi con nastri.

La comunità è quella di Zenìa, lo zenìta è la lingua parlata. Che suona più o meno così: “Sheaya ghemaya zeinà / Shu ke taivu maina thilja vì / Thilja laimsnenavu kirkiri navi shà”, melodiosa e ricca di vocali.

Resterebbe da capire dove sia Zenìa. Non c'è sulle carte geografiche, e quella lingua non ha dizionari che la riportino. Però se vi capiterà di mettere le mani sul cd (e relativo libretto con splendidi disegni) Zenìa. Suoni e storie di un paese immaginario, pubblicato da Nota Records, etichetta ed editore sempre molto attenti al patrimonio etnico e folclorico non solo italiano il mistero si chiarirà.

Zenia Suoni e storie di un paese immaginario Nota Records

Zenìa racconta la storia, in musica e parole, di un paese immaginario. Con note che sembrano appartenere a molte tradizioni diverse, tutte con qualche familiarità evidente, e suoni da una lingua altrettanto misteriosamente familiare. Un progetto nato da un'idea di Nora Tigges, vocalist  (che ha anche elaborato il primo nucleo di storie, e curato i disegni che illustrano le storie zenìte,) e Massimiliano Felice, chitarrista e organettista, cui si sono uniti poi Davide Roberto alle percussioni e il chitarrista Andrea Marchesino. Un progetto che, immediatamente a ridosso del Covid, ha fatto in tempo a farsi notare in rassegne concertistiche, teatrali, festival di arte di strada. Adesso, a bocce ferme, potete vederne degli estratti su YouTube.

Ma non finisce qui. Ne abbiamo parlato con Nora Tigges, con diversi spunti precisati da Massimiliano Felice.

«Il progetto nasce nell’autunno del 2018 quando, dopo anni di conoscenza e di collaborazioni occasionali sui palchi e nelle piazze della scena folk/world, abbiamo iniziato a ragionare in tre – io, Massimiliano,  e Davide – sulla  possibilità di mettere insieme anime e percorsi musicali, affini per alcuni aspetti ma anche molto diversi, alla ricerca di una musica che fosse qualcosa di più della semplice somma delle nostre esperienze».

«Così è nata l’idea di eseguire la musica di un paese inesistente, immaginario. Abbiamo iniziato a lavorare al repertorio e, man mano che siamo andati avanti, l’idea ha preso corpo e si sono delineati maggiormente i ruoli. Io ho scritto i testi delle canzoni in lingua immaginaria e in italiano le storie di Zenìa, concepite inizialmente quasi come un divertissement, una sorta di falso commento etnologico per condurre  i “forestieri” (ovvero gli spettatori) all’ascolto di canti eseguiti in una lingua ignota, mentre poi il lavoro di scrittura ha preso una piega diversa, più metaforica e profonda».

«Massimiliano si è occupato delle “prime stesure” dei brani a cui poi abbiamo lavorato in tre in fase di arrangiamento; e qui è stato essenziale il confronto con Davide che ha contribuito ad arricchire le idee musicali in sala prove. In una seconda fase è stato importante il contributo di Andrea Marchesino che ha lavorato con noi per un anno circa, prima della pandemia, e ha registrato con noi le musiche del libro-cd».

«Il nostro spettacolo quindi ha preso una forma ibrida: non lo definiremmo  propriamente teatrale poiché la musica resta al centro della nostra performance, ma non è neppure un semplice concerto. Piuttosto, un viaggio immaginario affidato alla musica e alle storie raccontate. Quindi quello che facciamo in scena non è altro che porgere in prima persona questi brevi racconti in modo che siano un tutt’uno con le musiche con cui si intrecciano nella maniera più naturale possibile, senza forzature. Tra i “pezzi” più recenti – che includeremo in un prossimo lavoro – ce ne sono poi alcuni in cui questo intreccio si fa più fitto, rompendo la semplice alternanza fra testo recitato e canzone per andare verso un’integrazione più organica tra racconto e musica. Un grande contributo alla messa in scena di questa sorta di “concertacolo” (come ci piace definirlo) l’ha dato il regista Claudio Pieroni con cui abbiamo intrapreso un percorso di training teatrale: grazie al suo sguardo esterno puntuale, umano e professionale, abbiamo trovato e continuiamo a inseguire una nostra modalità performativa originale».

«Nel primo anno di attività di Zenìa e unico precedente all’emergenza sanitaria, abbiamo partecipato a diversi festival mentre in occasione dell’uscita del libro-cd, il 30 novembre 2020, ne abbiamo trasmesso un estratto in streaming collaborando con una sala di registrazione, gli Abbey Rocchi Studios di Roma».

Come si sono precisate, mano a mano, le storie di Zenìa?

«La scrittura delle storie, oltre l’iniziale obiettivo di fornire una “cornice” ai brani presentati, ha creato un “altrove” narrativo sospeso tra leggenda e metafora che ci ha dato la possibilità non solo di accompagnare lo spettatore, ma anche di veicolare riflessioni e interrogativi su temi che ci stanno a cuore e che quindi, con naturalezza, hanno trovato espressione anche nel progetto Zenìa: tra questi possiamo citare il senso di comunità, l’appartenenza come processo sempre in divenire e non come dato identitario, la solidarietà, la migrazione, il rapporto con l’altro, i ruoli sociali e di genere, la ricerca di un equilibrio dinamico individuale e sociale – insomma, la libertà di essere e di mutare».

«Finora l’aspetto narrativo dell’immaginario zenita è stato elaborato per lo più da me, prendendo spunto dalle musiche, ossia dalle visioni e dalle emozioni suggeritemi dalle melodie e dai ritmi che andavamo intrecciando a partire dalle idee musicali soprattutto di Massimiliano. Ma lavorando a nuove storie e confrontandoci quotidianamente come facciamo, stanno venendo fuori nuovi spunti e nuove visioni anche di Massimiliano e di Davide. Questo primo libro-cd infatti nelle nostre intenzioni, come abbiamo già accennato, non vuole restare un’esperienza isolata: al contrario, non è che il primo capitolo, l’inizio della storia di Zenìa».

La “lingua” zenìta sembra quasi un misto di sloveno, friulano, piemontese, wolof! Quale è stata l'idea di base per creare quei fonemi e quel tipo di suoni sillabici?

«Trovo affascinanti gli accostamenti che proponi poiché non conosco, neppure passivamente, alcuna delle lingue citate se non per qualche lettura isolata, e quindi le assonanze che trovi non possono che nascere dall'ascolto: d’altronde mi accade regolarmente che qualcuno, dopo avermi ascoltata cantare in lingua zenita, mi si avvicini per comunicarmi la somiglianza sonora con una lingua o dialetto di sua conoscenza. Questa libertà che le persone sentono di “appropriarsi” di Zenìa e della sua lingua è per me entusiasmante e ritengo che sia un aspetto importante del nostro lavoro. Creare i fonemi della lingua zenita è stato un processo molto giocoso, anzi è un vero e proprio gioco di cui ho stabilito le regole in piena libertà, guidata inizialmente solo dal piacere di pronunciare determinati suoni in un certo contesto melodico e ritmico e insieme di sentirli istintivamente “aderenti” alle immagini, alle emozioni, alla storia che quella musica mi suggerisce».

«Dico inizialmente perché, andando avanti, ho sentito il bisogno che ogni nuovo testo “suonasse zenita”, cioè presentasse delle sonorità coerenti con quelle dei testi già elaborati, come se, appunto, appartenessero a una stessa lingua. Sono tornata quindi spesso a usare gli stessi fonemi, le stesse “parole”, magari variando alcune vocali o desinenze. In questo modo è venuta a crearsi una parvenza di flessione “grammaticale”, che però resta priva di ogni sistematicità e libera da ogni riferimento semantico preciso. Il gusto di giocare con le parole e le forme linguistiche in questo modo – per me naturale – affonda sicuramente le sue radici nell’esperienza del multilinguismo che mi accompagna da sempre: per motivi familiari sono cresciuta parlando quattro lingue europee».

Qual è la tua (o vostra) idea sul concetto di “folk immaginario”, visto che in un certo senso ogni tipo di folk è immaginario, dato che la “tradizione” è concetto assai più mutevole di quanto i “campioni identitari” vogliano farci credere?

«Siamo assolutamente d’accordo sul concetto di “tradizione”: questo termine per noi evoca qualcosa la cui natura è mutevole e cangiante se considerata nella giusta ottica temporale, quella di lungo respiro e quindi di secoli, non anni, seppur ben ancorata ai luoghi e alle persone che l’hanno vissuta di generazione in generazione e la vivono tuttora. Alla formazione di una “tradizione” hanno concorso così tanti fattori – umani, sociali e ambientali – che non è possibile ridurre tutto agli ultimi cento anni (a dir tanto) con la pretesa di fermare nel tempo, dandole per sacre ed immutabili, solo le ultime rimanenze, rilevate magari proprio nel momento in cui vengono travolte dalla cosiddetta “globalizzazione”».

«Ovviamente questo vale anche per Zenìa. Quindi, quando definiamo la nostra musica come “folk immaginario” vogliamo soprattutto indicare che, pur trattandosi della musica “tradizionale” di un paese inventato – e quindi, giocoforza, di nostre composizioni originali – auspichiamo tuttavia che, grazie ovviamente anche agli elementi di vari repertori tradizionali che vi confluiscono,  suoni come se avesse radici in una comunità, come se riecheggiasse – così come d’altronde avviene, in diversa misura, anche nel caso dei gruppi folk/world che rielaborano “vere” musiche di tradizione orale – un repertorio di canti, suoni e ritmi limato dal tempo, “a disposizione di tutti” per accompagnare ed esprimere le varie situazioni ed emozioni della vita quotidiana, le gioie e le pene di una comunità. Solo  che nel nostro caso si tratta di una comunità immaginaria: quindi metaforica, scelta, desiderata».

Conosci la ”Gnosi delle fanfole” di Fosco Maraini, messa anche in musica da Massimo Altomare e Stefano Bollani molti anni fa? In generale cosa pensi delle lingue cosiddette “metasemantiche”?

«Della Gnosi delle fanfole conoscevo poco più che l’esistenza, avevo letto Il Lonfo in qualche antologia, mentre non ero al corrente della messa in musica di Altomare e Stefano Bollani. La lingua metasemantica teorizzata e praticata da Maraini, così come l’esilarante grammelot di un Dario Fo, si distinguono dalla lingua zenita per la loro apparente affinità con la lingua italiana, da cui mutuano preposizioni e altre parti funzionali del discorso nonché l’aspetto generale. Il gioco quindi in questo caso consiste nel presentare qualcosa che appare e “suona” italiano, ma non lo è: quindi “l’inciampo”, lo scherzo teso a chi legge o ascolta, è dato dall’impossibilità di assegnare un senso preciso al discorso (che pertanto si colloca, appunto, in uno spazio metasemantico)».

«La lingua zenìta, al contrario, non “suona” italiana ma richiama un più ampio e variabile spettro di suoni linguistici, nasce allo scopo di essere cantata, quindi in stretta connessione con la musica, all’interno di una ricerca legata alle sonorità e ai timbri della voce cantata. Allo stesso tempo, non ha nulla a che vedere con l’arte dello scat, non è frutto di  improvvisazione (i testi delle canzoni zenite sono stampati nel libretto) e non rinuncia all’apparenza di essere, appunto, una lingua – di avere una regolarità, una coerenza – quindi vuole dare l’illusione che le parole cantate “dicano qualcosa”, raccontino argomenti ed emozioni. A questo punto, a orientare la fantasia di chi ascolta, subentra il dialogo con le storie scritte in italiano (le ho peraltro tradotte anche in inglese, per permettere una più ampia fruibilità: sono disponibili come e-book sul sito di Nota)».

Ho trovato questo lavoro molto vicino, nello spirito, alla lontana audiocassetta dell'85 (ristampata in CD un paio d'anni fa dall'etichetta Freedom to Spend) in cui la scrittrice di fantascienza Ursula Le Guin assieme al musicista Todd Barton compose musiche e poesie in una lingua immaginaria dell'immaginaria comunità pacifica dei Kesh, in una California del futuro, per il libro Sempre la valle. Questo ti è stato di ispirazione?

«Non conoscevo questo lavoro, anche se da adolescente ho letto qualcosa di LeGuin. Incuriosita da questa tua domanda ho fatto una rapida ricerca online per farmi un’idea e trovo questo progetto decisamente intrigante: credo proprio che mi procurerò il libro. La musica allegata a Sempre la Valle comunque viene presentata come una fittizia raccolta di “registrazioni sul campo” etnomusicali e, a quanto ho potuto ascoltare in rete, e comprende essenzialmente tracce vocali, con qualche scarno tamburo a marcare una pulsazione e suoni della natura in sottofondo. Noi invece, come “musici di Zenìa”, ci proponiamo come gruppo di suonatori che vogliono portare la musica e la cultura della loro terra immaginaria  “per le strade del mondo” (come scriviamo in conclusione del libretto). Quindi nel nostro caso il riferimento non è tanto alla musica tradizionale “in funzione”, quella che un etnomusicologo potrebbe ipoteticamente registrare entrando nelle case di Zenìa a raccogliere le ninne nanne o i canti del lavoro domestico, o recandosi al porticciolo a carpire il richiamo lanciato dai pescatori per chiamare a raccolta chi li aiuterà a svuotare le reti; ma piuttosto ai concerti dei gruppi di “musica popolare” o folk che rielaborano materiali di origine tradizionale in forma di spettacolo (non a caso citavo il richiamo dei pescatori, che riecheggia nel brano "A nue"). Del resto, tutti abbiamo fatto e tuttora facciamo parte di gruppi di questo genere».

«L’impianto di Suoni e storie di un paese immaginario rinuncia quindi alla figura dell’intermediario fittizio (l’esploratore, il ricercatore) e dà voce, in  musica e parole, direttamente ai “portatori” della cultura zenita… che poi siamo noi. E poiché i temi, gli archetipi, i suoni di questa cultura, per immaginaria che sia, sono significativi anche per noi, qui e ora, nelle nostre vite reali, auspichiamo che tali possano essere anche per altri. A partire dal desiderio di immaginare una comunità degna di essere sognata, che speriamo sia un bisogno condiviso».

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