Torino Jazz Festival 2, il ritorno

Presentato il nuovo TJF di Giorgio Li Calzi, tra una programmazione coraggiosa e lo spettro del provincialismo torinese

Torino Jazz Festival 2018
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È il caso di dirlo, Torino Jazz Festival 2: il ritorno. Dopo la forsennata gestione dell’eredità (e del brand) del “primo” Torino Jazz Festival l’anno scorso, con quella incomprensibile parentesi che è stata Narrazioni Jazz, c’era grande attesa per il varo del nuovo TJF, presentato oggi (28 marzo) alle OGR di Torino, e che si terrà dal 23 al 30 aprile.

Chi segue queste pagine ha avuto modo di leggere spesso del Torino Jazz Festival. Partito con ambizioni importanti (e budget di conseguenza) nel primo anno della giunta Fassino, per iniziativa dell’allora assessore Maurizio Braccialarghe (recentemente scomparso), il TJF è diventato negli anni un po’ un osservatorio privilegiato di come gli enti pubblici trattano e pensano i “grandi eventi” di ambito musicale, con tutti i limiti (e non sono pochi) del caso. Dopo la vittoria elettorale di Chiara Appendino, da sempre fortemente contraria al TJF, lo stesso si è anche trasformato in punto di osservazione per verificare la tenuta e il respiro delle politiche culturali del Movimento 5 Stelle.

Inutile ripercorrere qui le vicende del primo TJF e dello sfortunato Narrazioni Jazz, che per i posteri nella storia dei festival torinesi si vedrà riservato il ruolo che Diadumeniano ha avuto nella storia degli imperatori romani: chi volesse riflettere su come si può far fuori un buon direttore artistico affidandogli un progetto già destinato a fallire, può leggere qui.

Veniamo invece al nuovo Torino Jazz Festival. Dopo tanti pettegolezzi e tante critiche preliminari, grande attesa c’era per il lavoro fatto in questi mesi dal nuovo direttore artistico Giorgio Li Calzi, a cui si è aggiunto ufficialmente come co-direttore Diego Borotti – entrambi musicisti, entrambi torinesi, in risposta all’esplicita richiesta della giunta di «internazionalizzare la città e parlare col territorio», come dichiarato.

C’è da ammetterlo con piacere: il programma dei main event del TJF 2018 è più che buono.

C’è da ammetterlo con piacere: il programma dei main event del TJF 2018 è più che buono. Non è scontato, mostra un certo gusto e una buona conoscenza di quanto avviene sulla scena internazionale, non si rifugia in quella fusion muscolare “da piazza” e nelle vecchie glorie con l’idea di compiacere il fantomatico “grande pubblico”. Evviva.

I nomi? I Radian, Archie Shepp, Ivo Papasov, Marc Ribot Ceramic Dog, Franco D’Andrea Octet, Terje Rypdal, Fabrizio Bosso con la Banda Osiris, Nils Petter Molvaer, Melanie De Biasio, Magik Malik, Fred Hersch in piano solo, Carla Bley e Steve Swallow con la Torino Jazz Orchestra (quest’ultimo concerto è una “replica” della prima produzione originale del TJF, nel 2012, funestata dalla pioggia, e sarà dedicato a Maurizio Braccialarghe).

Già, la pioggia: direzione artistica a parte, la maggiore novità del nuovo Torino Jazz Festival è proprio la scomparsa dei grandi eventi in piazza (finalmente!) a vantaggio di una programmazione che sfrutta soprattutto i nuovi spazi delle Officine Grandi Riparazioni, con ingresso a pagamento (a prezzi tutto sommato contenuti). Una circostanza che certo deve aver dato una mano alla direzione artistica. Intanto, perché difficile sarebbe stato programmare un Fred Hersch, o una Melanie De Biasio, in Piazza Castello. E poi perché – dopo i noti fatti di Piazza San Carlo – la messa in sicurezza degli eventi open air è materia più che scabrosa, specie per questa giunta. Ma, almeno per il TJF, meglio così: concerti migliori, meno spese (per stessa ammissione di Li Calzi, la gestione della piazza avrebbe inciso per un quarto dei 600mila euro di budget) e nessun rischio di annullamento.

Dunque tutto bene? Quasi. Se la programmazione principale può certo competere con altri festival di buon livello e ha i meriti di cui si è detto, si stenta francamente a capire perché debba essere affianca da una bulimica selva di eventi, eventini, brunch e quant’altro che si sovrappongono e si fanno concorrenza a vicenda. Davvero – e l’ho dichiarato in tempi non sospetti, e questa critica riguardava anche la precedente gestione – fatico a capire come questo genere di azione dovrebbe «ricompattare la comunità del jazz intorno al suo festival», come dichiarato in conferenza stampa dall’assessore Leon.

I direttori artistici raccontano di aver “censito” forse 200 musicisti jazz attivi a Torino, e di come il TJF sia riuscito, quest’anno, a farne suonare 150, rimandando i restanti alle prossime edizioni.

Ma è questo il modo di valorizzare le famigerate eccellenze locali? Che genere di politica culturale è quella che sfrutta così i suoi migliori musicisti, con una logica del “suoni perché sei torinese”? Che tipo di valorizzazione ha un jazzista che suona nel festival in cui suonano tutti? E, soprattutto, quale festival che ambisce a un certo prestigio extraurbano (per non dire internazionale) funziona così?

Ma è questo il modo di valorizzare le famigerate eccellenze locali? Che genere di politica culturale è quella che sfrutta così i suoi migliori musicisti, con una logica del “suoni perché sei torinese”?

Mi sembra, insomma, una mossa provinciale che non valorizza l’importante investimento economico. Non sarebbe meglio contribuire a far vivere la rete dei club e delle scuole di musica torinesi lungo tutto l’anno, e non solo in quella settimana in cui c’è il festival (come lo stesso Li Calzi ha peraltro suggerito in conferenza stampa)?

Ma d’altra parte il TJF è un osservatorio privilegiato delle politiche culturali sui grandi eventi. A volte ha anche imparato dai propri errori, forse c’è ancora speranza.

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