Non esiste catalogo più rivisitato in ambito jazz di quello Blue Note. Un flusso costante di nuove edizioni per un mercato che da un pezzo ormai vive di ricordi (basti pensare all'irresistibile ascesa degli inediti) ed è sempre più assetato di ristampe.
La nostalgia è rimasta l'unica, vera moneta sonante al netto degli entusiasmi passeggeri, e i dischi della label fondata nel 1939 da Alfred Lion e Francis Wolff, alla faccia della liquefazione dei supporti (la casa madre Universal è presente in forze su tutte le piattaforme di streaming), continuano a cavarsela alla grande in formato fisico grazie a una fedele platea di acquirenti (non solo attempati collezionisti e completisti danarosi: nuotano in parecchi nel mare magnum di chi si ostina a comprare).
La nostalgia è rimasta l'unica, vera moneta sonante al netto degli entusiasmi passeggeri.
C'è poco da stupirsi insomma che il presidentissimo Don Was, al timone dal 2012 dopo la fine del lungo regno di Bruce Lundvall, per festeggiare gli 80 anni di vita dell'etichetta abbia pensato all'ennesima pioggia di viniliche riedizioni. Lanciata a inizio 2019, la serie Tone Poet non è però la solita, frettolosa rispolverata ai pezzi pregiati; dimenticate i dischi-sottobicchiere e i viniletti da megastore: stavolta si è deciso di fare le cose per bene e in grande. Come? Affidandosi a due fuoriclasse del settore ristampe: il produttore Joe Harley e (soprattutto) l'ingegnere del suono Kevin Gray, al lavoro da tempo sul catalogo Blue Note per la lussuosissima serie Music Matters, avviata nel 2007 a beneficio degli audiofili più esigenti (e benestanti: si parla di 70-80-90 dollari all'uscita per salire fino a quotazioni criminali).
«L'idea alla base del progetto Tone Poet è quella di offrire la migliore edizione possibile: chi compra questi dischi deve sapere che non potrà mai trovare qualcosa che suoni meglio». A chiarire propositi e linee guida – in un'intervista a Discogs che potete leggere qui – è lo stesso Harley, che grazie alla disponibilità dei nastri originali ha potuto lavorare con Gray partendo da zero su ogni singolo titolo.
O meglio: partendo nella maggior parte dei casi dal lavoro di Rudy Van Gelder, la mente dietro al vetro nelle session del periodo classico (anni Cinquanta e Sessanta). Una leggenda più che un ingegnere, l'uomo che dal quartier generale degli studi di Hackensack prima (la casa dei genitori), e di Englewood Cliffs a partire dal 1959, ha inventato il suono Blue Note (e non solo). Eppure, con il conforto della tecnica e della storia, oggi sappiamo che quel suono-patrimonio dell'umanità era figlio anche di esigenze e di limiti dettati dal contesto produttivo e di mercato. A partire dalla necessità di far rendere al meglio i supporti su qualsiasi tipo di impianto, soprattutto su quelli più economici e scalcagnati che ci si aspettava potesse avere a casa l'acquirente medio delle produzioni di un'etichetta indipendente (non certo petrolieri e primi ministri, tanto per intenderci).
Insomma, molto è rimasto fuori dai solchi per cause di forza maggiore, e proprio quel molto (soprattutto nello spettro dei bassi ma anche a livello di tridimensionalità della resa e di pulizia) è il valore aggiunto della serie Tone Poet. Che al massimo grado di fedeltà ai nastri originali, alla qualità immacolata del suono e del vinile (180 grammi stampato dalla RTI di Camarillo, in California... Charlie Parker ci ha messo lo zampino), aggiunge un packaging di lusso (gatefold con fotografie inedite dalle session quando disponibili) e un prezzo decisamente competitivo: tra i 30 e i 40 euro. Che non sono pochi in assoluto per un disco, certo, ma che vanno raffrontati con gli esborsi di solito necessari per accedere a un certo tipo di edizioni limitate (vedi il caso Music Matters e dintorni, ai quali i Tone Poet non hanno nulla da invidiare).
Una cinquantina fin qui le ristampe in catalogo, comprese quelle annunciate per i prossimi mesi. Blue Note ma anche Pacific Jazz e United Artists, etichette poi finite nella stessa scuderia, con un occhio di riguardo per i titoli più trascurati. Certo, non mancano i grandi confidenziali del passato (da My Point of View di Herbie Hancock a Now He Sings, Now He Sobs di Chick Corea), ma l'impostazione più che antologica è di riscoperta (per i vari Maiden Voyage, The Sidewinder, Blue Train e compagnia rivolversi alla serie Classic Vinyl).
Un merito nel merito se si pensa che molti dischi non erano disponibili da tempo in edizioni facilmente accessibili. Fate la vostra scelta, dunque, magari partendo da uno o più dei magnifici 10 che ci permettiamo di consigliarvi.
1. Gil Evans – New Bottle Old Wine (1958)
Non solo Blue Note, si diceva. Arriva dritto dritto dal catalogo Pacific il pirotecnico omaggio di Gil Evans ai grandi della storia del jazz. Reduce dal primo incrocio con Miles Davis in Miles Ahead, pubblicato una manciata di mesi prima, l'ex arrangiatore di Claude Tornhill riunisce in studio un ensemble di 17 elementi nel quale spiccano il contralto solista di Cannonball Adderley, il corno di Julius Watkins, il contrabbasso di Paul Chambers e la batteria di Art Blakey. “St. Louis Blues”, “King Porter Stomp”, “Lester Leaps In”, “'Round Midnight”, “Bird Feathers”, “Manteca!”; W.C. Handy, Jelly Roll Morton, Lester Young, Thelonious Monk, Charlie Parker, Dizzy Gillespie: una suite in due facciate che racconta di un'idea di orchestra già perfettamente a fuoco e dall'impatto enorme. Esaltante.
2. Baby Face Willette – Face to Face (1961)
La quintessenza dell'Hammond sound. Grant Green alla chitarra, Ben Dixon alla batteria, Fred Jackson al sax tenore e Baby Face a pigiare come un forsennato sui tasti bianchi e neri. Il folgorante debutto di un artista destinato a una breve e sfortunata carriera: cresciuto ascoltando gospel e suonando rhythm and blues, convertito al jazz dal profeta Charlie Parker, arrivato a New York – quattro mesi prima di incidere Face to Face – con un curriculum da giramondo in tasca e inghiottito dalla miseria (e dalla tossicodipendenza) dopo un paio d'anni di carcere e qualche altro disco (compreso il bis su Blue Note: Stop and Listen). Imperdibile.
3. Tina Brooks - The Waiting Game (1961)
Un'altra meteora accecante della galassia Blue Note. Tre anni in tutto (1958-1961) a fare da spalla ai vari Jackie McLean, Freddie Hubbard, Kenny Burrell e Freddie Redd; cinque session da leader fissate su nastro e un solo disco pubblicato in vita prima di sparire per sempre dai radar del jazz (True Blue, passato alla storia anche per una delle copertine più geniali di Reid Miles). The Waiting Game fotografa l'ultimo giornata in studio del sassofonista del North Carolina (nel marzo del 1961) e ha dovuto attendere fino agli anni Ottanta prima di essere strappato all'oblio dalla benemerita Mosaic. Johnny Coles (tromba), Kenny Drew (pianoforte), Wilbur Ware (contrabbasso) e Philly Joe Jones (batteria) gli altri quattro di una band che fa scintille hard-bop lungo i sinuosi tornanti di brani a presa rapida come “Talkin' About” e “Dhyana”. Spettacolare.
4. Stanley Turrentine – Hustlin' (1964)
Inevitabile passare dalle parti di Stanley Turrentine, cavallo vincente della scuderia Blue Note lungo tutti gli anni Sessanta e campionissimo del soul-jazz. Un maestro inarrivabile del sax tenore che in Hustlin', oltre che da Kenny Burrell (chitarra), Bob Cranshaw (contrabbasso) e Otis Finch (batteria), è accompagnato dalla moglie Shirley Scott, che nella galassia composita dell'Hammond se ne sta su una stella tutta sua (ascoltare per credere l'assolo in “Trouble #2”). La classica session ad alto voltaggio gospel-blues, che fila via come un treno sui binari di un jazz pochi fronzoli e tanto godimento. Irresistibile.
5. Jackie McLean – It's Time! (1964)
Nel cuore tumultuoso degli anni Sessanta, le incisioni Blue Note del sassofonista Jackie McLean rappresentano uno dei tentativi più coerenti e riusciti di spingere la forma-jazz verso gli scogli di una nuova modernità. Cresciuto tra eroina e violenza nel mito distruttivo di Charlie Parker, folgorato sulla via del free da Ornette Coleman, in It's Time! è alla testa di un formidabile quintetto completato da Charles Tolliver (tromba), Herbie Hancock (pianoforte), Cecil McBee (contrabbasso) e sua maestà Roy Haynes (batteria). “Cancellation”, “Das' Dat” e “Revillot” i momenti più alti di un disco esplosivo, trascinante, ispiratissimo; meno radicale all'apparenza rispetto ai più celebrati Destination... Out! e One Step Beyond, ma altrettanto coraggioso nello spostare un bel pezzo più in là i confini del possibile. Rivoluzionario.
6. Lee Morgan – Cornbread (1965)
Capolavoro senza e senza ma. Uno dei titoli di spicco della discografia di un gigante del jazz. Accompagnato per l'occasione da una band stellare: Hank Mobley e Jackie McLean (sax tenore e contralto), Herbie Hancock (pianoforte), Larry Ridley (contrabbasso) e un meraviglioso Billy Higgins (batteria). Blue Note sound all'ennesima potenza, con la perla assoluta di un gioiello come “Ceora”, mid-tempo dall'andatura bossanova diventato uno standard, e l'immancabile numero funky-soul alla “Sidewinder”, il brano che dà il titolo al disco, impreziosito da uno degli assoli più memorabili di Morgan. Imprescindibile.
7. Sam Rivers – Contours (1965)
Il lato sperimentale e spericolato del catalogo Blue Note. Per un disco, il secondo a nome Sam Rivers dopo Fuchsia Swing Song, che mette in discussione dall'interno le certezze dell'hard bop senza mai demolirle del tutto. Un gioco allo straniamento sul filo dell'avanguardia, pienamente dentro ma già oltre la rivoluzione free. Freddie Hubbard (tromba), Herbie Hancock (pianoforte), Ron Carter (contrabbasso) e il mai troppo lodato Joe Chambers (batteria) i complici e sodali di un Rivers che si divide tra flauto, sax tenore e soprano, giganteggiando in brani-rompicapo come “Point of Many Returns”, “Euterpe” e “Mellifluous Cacophony”. Geniale.
8. Duke Pearson – The Phantom (1968)
Figura straordinaria e atipica di arrangiatore-compositore (sua la firma su classici come “Cristo Redentor”, “Jeannine” e “Idle Moments”), oltre che pianista dal tocco misurato ed elegantissimo, Columbus Calvin Pearson Jr. detto Duke (omaggio di uno zio al Duca Ellington) fu alle dipendenze dirette dalla Blue Note come talent scout, produttore e uomo di fiducia a tutto tondo. In parallelo a una carriera solista culminata in una serie di dischi memorabili disseminati lungo tutti gli anni Sessanta. Qui lo troviamo in sella a una formazione gioiosamente latin ancorata a una sezione ritmica formidabile: due percussionisti più Mickey Roker alla batteria e Bob Cranshaw al contrabbasso. Presenza timbricamente dominante il flauto di Jerry Dodgion, con il vibrafonista Bobby Hutcherson nei panni dell'ospite. Soul jazz exotico e vaporoso che punta dritto verso i mari del Sud. Classe da vendere.
9. Andrew Hill – Passing Ships (1969)
Prima volta in vinile (doppio) per uno dei tanti dischi mancati di Andrew Hill. Registrate in due sedute nel novembre del 1969, le sette composizioni raccolte in Passing Ships sono rimaste nei cassetti della Blue Note fino al 2003. Incredibile ma nemmeno poi tanto se si pensa alla carriera in tono assurdamente minore di una delle menti più visionarie della storia del jazz. Che per l'occasione scrive e arrangia (divinamente) per un ensemble di nove elementi: due trombe (Woody Shaw e Dizzy Reece), ance, clarinetti e flauti (Joe Farrell), trombone (Julian Priester), corno (Bob Northern) e basso tuba (Howard Johnson), con Ron Carter al contrabbasso e Lenny White alla batteria. Un gioiello dal valore inestimabile. Finito su nastro solo grazie all'ostinazione di Alfred Lion, che continuò a portare in studio il pianista di Chicago nonostante sapesse che dal punto di vista commerciale la scommessa era persa da un pezzo. Clamoroso.
10. Joe Henderson – The State of the Tenor vol. 1 & 2 (1985)
Doverosa chiusura con balzo negli anni Ottanta per i due volumi del Live at the Village Vanguard del sassofonista Joe Henderson, con Ron Carter al contrabbasso e Al Foster alla batteria. Una sfida diversa dal punto di vista della resa audio rispetto al materiale del periodo Van Gelder. Più che su pulizia e restauro, in questo caso ci si è concentrati sull'ambiente, sulla tridimensionalità, cercando di restituire il clima raccolto e ovattato di uno dei jazz club più famosi al mondo. Il risultato è sorprendete per calore e nitidezza. Dalle prime note di “Beatrice”, la meravigliosa ballad dedicata da Sam Rivers alla moglie, al congedo affidato a “The Bead Game”, Henderson e compagni non sono mai sembrati così vicini e veri. Emozionante.