Stefano Carbonelli: la fisica, la matematica, la chitarra

Intervista al chitarrista Stefano Carbonelli: il nuovo disco Morphé è fresco di uscita per Cam Records

Foto di Elisa Caldana - Morphé Quartet
Foto di Elisa Caldana
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Tra i nomi dei più interessanti giovani talenti del jazz italiano, quello del chitarrista romano Stefano Carbonelli è ormai stabilmente tra quelli più citati.

Rivelatosi un paio di anni fa con un bel disco per la Auand Records, ha continuato a lavorare stabilmente con il proprio quartetto (completato dal sassofonista Daniele Tittarelli, dal contrabbassista Matteo Bortone e dal batterista Riccardo Gambatesa) e ha in queste settimane pubblicato un nuovo disco, questa volta per la Cam Records, dal titolo Morphé.

Un lavoro dalla tessitura cangiante, in cui risalta una profonda attenzione al dettaglio, alle dinamiche tra gli strumenti, in un clima di inquieto camerismo che fa risaltare le peculiarità dei singoli e della tessitura corale. Attivo anche nel trio di Jacopo Ferrazza e nel sestetto di Francesco Ponticelli , entrambi bassisti, Carbonelli è artista di grande rigore e intelligenza, con cui è stato un piacere fare una chiacchierata per voi.

Foto di Elisa Caldana - Morphé Quartet
Foto di Elisa Caldana

Come nasce il nuovo disco Morphé e come hai lavorato su questi materiali?

«Ho lavorato dapprima sulla scrittura per un tempo più o meno lungo: tra composizione e modifiche (ricercando la migliore scelta delle singole note delle voci e delle armonizzazioni) il processo è durato vari mesi. Per alcune tracce ho utilizzato parti per tastiera precedentemente scritte di getto o in minor tempo, riarrangiandole per la formazione del quartetto che si era consolidato dopo l’uscita del primo disco Ravens Like Desks».

«Per altre sono partito da zero pensando proprio ai musicisti del quartetto, Daniele, Matteo e Riccardo. Ho continuato ad usare degli elementi musicali del primo album con la differenza che le strutture di Morphé (dal greco “forma”) mutano continuamente nel loro sviluppo, per cui in realtà sono più dense di informazioni».

«Un’altra differenza è che spesso non sentivo l’esigenza di comporre brani con un groove (cioè un accompagnamento costante propulsivo), per cui il ruolo della batteria è quasi solo timbrico; a contrasto le sezioni in cui la batteria esegue il groove sono intense e sfociano in dinamiche molto forti su tutto il set dello strumento. Quindi ci sono momenti neoclassici da camera (umile tentativo) alternati ad altri rock fino al metal (in un certo senso, per dare l’idea) con armonie sempre contemporanee».

Come è evoluto il quartetto e il tuo modo di pensare la musica rispetto al primo disco per Auand cui accennavi?

«La strumentazione è più varia (aggiunta di basso elettrico, semiacustico e chitarra classica), mentre le sonorità sono meno jazzistiche e spesso vicine alla musica da camera. Ho dato priorità all'aspetto compositivo e diversamente dal primo disco gli assoli improvvisati non hanno un ruolo fondamentale nel disegno complessivo. Ci è voluto non poco tempo per riuscire ad eseguire con convinzione e scioltezza la musica di Morphé e le indicazioni date sull’interpretazione sono state numerose perché altrimenti non sarebbe uscito il senso dei pezzi. Il quartetto è molto coeso, siamo attenti al potenziale della musica scritta e cerchiamo di non portare l'attenzione dell'ascoltatore verso i singoli strumenti durante i soli, lo troveremmo fuori contesto».

Come funzionano le relazioni all’interno del quartetto? Qual è l’apporto di idee da parte dei tuoi compagni di avventura?

«Ho sottoposto il materiale scritto al quartetto nelle prove da aprile 2016 fino alla registrazione di marzo 2017. I brani non sono stati cambiati sostanzialmente, ma ci sono state delle proposte interessanti su qualche sezione o sulla strumentazione… alcune legate alle necessità del gruppo. Così è nata per esempio la doppia versione del brano “Bongard” o la ripetizione del finale di “Glenn”. Matteo ha inoltre scritto per il gruppo il brano “Car A Vudge Joe”».

La tua tesi di laurea in fisica – lo ricorda anche Brian Morton nel booklet del disco – ha trattato “La fisica degli strumenti musicali a corda oltre l’equazione delle onde”. Tenendo conto della nostra probabile pochezza nel comprendere questa materia, ti va di provare a spiegare in poche parole più o meno di cosa si tratta?

«Alla fine del mio percorso universitario ho colto l'occasione per approfondire un po’ di acustica musicale, materia vastissima, e tra i possibili temi che mi ha sottoposto il Prof. Paolo Camiz ho scelto lo studio degli strumenti a corda visti come oscillatori accoppiati. Descrivere matematicamente uno strumento musicale è molto difficile e occorre una modellizzazione semplificata del sistema; lo strumento è così suddiviso in tre oggetti: eccitatore (plettro, dita, archetto o martelletto che dà il via alla vibrazione), risuonatore (corda, che produce una nota a precise frequenze) e radiatore (tavola armonica e aria nelle buche, che trasmettono il suono nello spazio circostante rendendolo udibile). Lo studio analitico di questi oggetti separati e poi accoppiati consente di prevederne approssimativamente il movimento durante la vibrazione, che poi determina caratteristiche del suono emesso (per esempio equalizzazione, risonanze, timbro, intensità, durata)».

I tuoi studi hanno influenzato il modo in cui approcci lo strumento?

«La conoscenza dell'argomento specifico non ha direttamente influenzato il mio modo di suonare nella scelta delle note. Durante la dissertazione mi chiesero lo stesso e risposi molto direttamente che avrei imparato più sulla musica (sul linguaggio della musica) in un corso di matematica; a quel punto il relatore fece una bella controbattuta, rivolta a colui che fece la domanda: “piuttosto bisognerebbe chiedergli quanto abbia appreso di fisica con la musica”! A distanza di qualche anno posso dire che la maggiore consapevolezza dei meccanismi fisici mi ha indotto a prestar maggiore attenzione, anche con l'orecchio, a elementi acustici che prima trascuravo (per esempio le risonanze) e a cercare di controllarli».

Quali sono i chitarristi che ti interessano di più, sia storicamente che oggi?

«Per quanto non sia un patito dello strumento, primo nel mio elenco in ordine sparso è Allan Holdsword, del cui linguaggio sono rimasto sbalordito quando l’ho ascoltato la prima volta. Tuttora se lo ascolto mi dà la sensazione che sia un alieno per ciò che riesce a concepire e tirare fuori dalla chitarra. Poi Pat Metheny, che tra i chitarristi jazz mi ha appassionato più di tutti per i dischi Bright Size Live e Question And Answer. Ralph Towner per l'incontro tra tecnica e suono del mondo della chitarra classica con il jazz. Certamente Bill Frisell per la varietà, il controllo e la maturità sconvolgente sulla produzione del suono, dinamiche, effetti speciali, timbri. John Scofield per il suono titanico e la profondità di ogni nota».

«I matematici hanno bisogno della creatività, ma a differenza degli altri artisti per loro non tutte le idee sono valide perché alcune non portano da nessuna parte mentre altre risolvono il problema».

«Ben Monder per l'uso di intervalli moderni nell'armonia, un musicista che per il suono oscuro non trova molto seguito, ma quanto di più personale si possa trovare ai giorni nostri. Lo reputo importante come musicista contemporaneo prima che chitarrista. Poi citerei Guthrie Govan, chitarrista rock-fusion-blues-funky con una tecnica spaziale, ineccepibile, un'espressività, un'apertura, un gusto e padronanza del linguaggio anche jazzistico neanche lontanamente paragonabile agli altri del settore; in più è ironico e divertente.Tra i jazzisti recenti trovo interessante Gilad Hekselman, per l'uso polifonico dello strumento (più melodie contemporaneamente come nella musica rinascimentale o barocca del liuto)».

E cosa ascolta in queste settimane Stefano Carbonelli?

«Pierre Boulez, la Sonata per pianoforte n.2. Mi sono imbattuto in questo ostico ascolto dopo averne letto i commenti in una raccolta di scritti di Glenn Gould (L'ala del turbine intelligente). Sempre in questi giorni sto ascoltando Invenzioni e Sinfonie di Bach, la cui scrittura non smette di sorprendermi per il senso di "esattezza" della sintassi, davvero mai banale, e per le costruzioni a più livelli. La felicità derivante dall'ascolto di Bach secondo me è vicina a quella che si prova leggendo una bella teoria matematica: i matematici hanno bisogno della creatività, ma a differenza degli altri artisti per loro non tutte le idee sono valide perché alcune non portano da nessuna parte mentre altre risolvono il problema. Bach dà l'impressione di essere ispirato dalle “giuste” idee come i grandi matematici e con la “giusta creatività” porta a compimento la composizione non lasciando note opinabili».

I tuoi prossimi impegni?

«Prossimamente sono impegnato con Jacopo Ferrazza e Valerio Vantaggio per dei concerti in Svizzera in cui suoneremo il disco Rebirth e un progetto misto svizzero-italiano con Josquin Rosset, poi c'è in programma una presentazione di Morphé a metà marzo a Marino, vicino Roma. Infine sarò e in studio con il nuovo sestetto di Francesco Ponticelli insieme a Enrico Zanisi, Enrico Morello, Alessandro Presti e Daniele Tittarelli».

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