Un disco teso, fumante, vivo. Realizzato, a quindici anni dall'ultima incisione di studio, con un exploit di crowdfunding a dir poco esaltante: sessantamila euro, il decuplo della cifra necessaria richiesta. Tornano i Gang, ovvero "La banda dei Fratelli Severini", con Sangue e cenere. Padri fondatori del combat rock in Italia che all'inizio si abbeverava direttamente alla fonte Clash, per scegliere poi (nulla rinnegando) il gran solco dell'Americana, quel filone libertario e indomabile che fa da controcanto puntuale alle note reazionarie di certo blue collar rock. In copertina c'è l'evidente richiamo ai Basement Tapes dylaniani (lo vedete nella foto qui sopra), gran messe di persone e oggetti simbolici tutti assieme. E poi nel disco c'è ospite Garth Hudson, a proposito: il tastierista principe della Band che accompagnava Bob Dylan nella "svolta elettrica". Nel disco, poi, compaiono Jason Crosby, Brant Leeper, John Egenes, Charlie Cinelli, e - soprattutto - Jono Manson, già protagonista in passato di uno splendido lavoro in duo con Paolo Bonfanti, a produrre e suonare. Un disco schierato senza infingimenti, perché i Gang rivendicano una militanza a sinistra inscalfibile, senza mollare di un centimetro su precisi assetti valoriali e ideologici che altri considerano fuori tempo massimo. Partiamo, da qui, dal crowfunding per realizzare Sangue e cenere, nella chiacchierata con Marino Severini.
«Crediamo che il pensiero della sinistra nel merito sia stato da sempre "quanto costa? Deve costare il meno possibile!"» comincia Severini. «Poi, come si faccia per produrre un disco o un libro o un film decorosi sono affari di chi lo fa. C'è stata l'assenza totale di tutta la sinistra su come procurarsi le risorse necessarie alla produzione. E questo dura da quando la sinistra ha abbandonato, ha ceduto la cultura e i suoi protagonisti al mercato. Questo già dagli anni Settanta, si vedano le analisi di Pasolini in merito negli Scritti Corsari. Abbiamo iniziato una strada nuova, l'abbiamo percorsa ma non siamo che agli inizi di un nuovo cammino».
Perché avete scelto Jono Manson come produttore? C'è un curioso snodo "italiano" di Manson: anni fa ha fatto un bel disco con Paolo Bonfanti, uno non certo lontano dalle vostre cose...
«Jono conosce bene l'Italia e il panorama musicale italiano da molti anni, e questo gli ha permesso di diventare un buon "pontefice" fra l'Italia e l'America. Con noi è stato un perfetto timoniere. Ha lavorato moltissimo a questo disco, si è dedicato a questo lavoro in un modo che io neanche avrei immaginato. Dalla registrazione alla scelta dei musicisti, agli arrangiamenti. Non ha mai cercato di cambiare direzione in corsa, ha mantenuto la rotta fino alla fine e sempre con uno spirito costruttivo, da gran lavoratore e sempre con gioia ed entusiasmo. Doti, queste, molto rare qui a casa nostra. Come per noi anche per Jono la musica, le canzoni, i concerti non sono solo un lavoro, ma la vita! È stato un ottimo compagno di strada e con lui sicuramente il viaggio continuerà».
Vorrei che approfondissi un concetto che viene ribadito nei concerti, presentando i brani, il rovescio esatto del titolo di una famosa canzone: "La Storia non siamo noi".
«Non ho mai creduto a "La Storia siamo noi". Noi non siamo mai stati la storia o, meglio, noi abbiamo poca confidenza con la storia. Qualche volta siamo entrati dal portone della Storia ma ci hanno buttato fuori subito dopo dalla finestra... Noi alla storia di certo non diamo del "tu"e neanche del "lei", forse qualche volta abbiamo dato del "Voi"... La storia è sempre appartenuta ai vincitori, chi vince ha la storia e ne impone la propria versione con ogni mezzo. In altri tempi con qualche manganellata, o carcere o ghigliottina, oggi con le comunicazioni di massa. Con quelli che sono di volta in volta gli strumenti del potere. E allora noi cosa abbiamo avuto per secoli e secoli? Noi abbiamo avuto le Storie, al plurale. Attraverso le Storie facciamo un'altra Storia, la nostra, quella dei vinti. Questa nostra versione della Storia la tramandiamo di generazione in generazione attraverso i nostri strumenti e linguaggi culturali: le canzoni, il cinema, la letteratura, la poesia, il fumetto, gli strumenti dell'arte, della cultura. Ciò significa che noi non dimentichiamo l'orrore, la violenza, lo sfruttamento, l'esclusione che abbiamo subito e così facendo manteniamo viva la memoria o il sentimento della memoria. Ecco allora che la memoria (fatta dalle nostre storie) diventa l'unico strumento che da vinti ci rende invincibili, mai sconfitti.
"Non hai niente se non hai le storie" scriveva Leslie Silko, scrittrice indiana d'America. Le storie sono una protezione, ma anche uno strumento per cambiare il mondo, e attraverso di esse riscopriamo il cammino fatto - e quindi la nostra identità. Da dove veniamo, dove siamo e quindi dove andremo se riprendiamo il cammino... Per andare avanti occorre andare indietro. Come scriveva Levi, "il Futuro ha un cuore antico", e quel cuore è la casa del Sentimento. Con questo disco noi ritorniamo a quella casa, perché come scrisse Pasolini, "la rivoluzione non è che un sentimento". Tornare a casa è già l'inizio di una nuova rivoluzione, l'avvento di un Nuovo umanesimo».
Ancora una volta, a proposito di storie, in un disco dei Gang troviamo una storia di Resistenza, "Ottavo Chilometro"
«È la storia di Wilfredo Caimmi, Nato ad Ancona nel quartiere popolare del Piano San Lazzaro. Comunista, partigiano: a 18 anni aderì alle Brigate Garibaldi. Wilfredo è scomparso il 17 ottobre del 2009. Di Wilfredo posso raccontare soltanto un episodio che risale al 1990 e che lo portò alla ribalta nazionale. Prendo in prestito un articolo di Fosco Giannini sulla vicenda: "Da un sottoscala della sua abitazione esce acqua; l'idraulico chiamato dal condominio a riparare il guasto sfonda una parete, trovandosi di fronte ad un vero e proprio arsenale militare: erano le armi - fucili, pistole, decine di mauser tolte ai tedeschi, mitragliatrici - che il comandante Rolando, (il nome di battaglia di Wilfredo) dopo la Resistenza, non aveva consegnato e che aveva invece accuratamente custodito, oliato e tenuto in funzione per quarantacinque anni, forse nell'illusione - all'inizio - che il Vento del Nord e la rivoluzione potessero proseguire e certamente nel tentativo - passati i decenni - che la memoria della lotta non svaporasse. La giustizia borghese, tuttavia, non può conoscere, né accettare il sogno: Caimmi, a sessantacinque anni suonati, finisce nelle prigioni anconetane e vi rimane chiuso - con la sua salute incerta - per oltre sette mesi. Anche l'Anpi locale non scherza: il comandante Rolando, la medaglia d'argento per la lotta di Liberazione, è espulso 'per detenzione d'armi'. Poi, tutto si razionalizza: Caimmi - ma dopo la galera - viene da tutti, compresa l'Anpi (che lo riammette nelle proprie fila), riabilitato; il suo nome torna di cristallo e il vasto arsenale incidentalmente scoperto viene organizzato ed esposto - per tramandare lo spirito della lotta di Liberazione - nel museo della Resistenza di Falconara, vicina ad Ancona"».
«Ma per capire meglio chi fosse veramente Wilfredo dell'"Ottavo Chilometro" posso aggiungere questo fatto: dopo una bellissima serata passata insieme a lui e ad altri compagni a casa sua, sull'uscio di casa gli dissi: "ma chi te l'ha fatto fare Wilfre', a tenere per tutti questi anni tante armi a casa, ma perché non gliele hai restituite?". Lui mi rispose con una frase che ancora oggi riassume tutta la storia del nostro Paese: "A chi, e quando?". Quando e di chi un partigiano si sarebbe dovuto fidare e consegnare le armi? Una storia che non è ancora finita... Ecco chi era Wilfredo Caimmi, uno che non si è mai arreso alle circostanze. Partigiano una volta, partigiano per sempre».
In Sangue e cenere c'è anche una canzone per Antonio Gramsci, e per la finestra della sua camera sarda da cui si affacciava, bambino.
«La canzone "Nino" è una sorta di lettera scritta a Gramsci, un po' come avevo già fatto con "Paz", scritta per Andrea Pazienza. Nino è il nome da bambino di Gramsci e la finestra da cui mi sono affacciato è la stessa da cui guardava il mondo Gramsci quand'era bambino, è quella della sua casa natale, a Ghilarza, in Sardegna. Quindi mi rivolgo a Gramsci bambino, che ha davanti tutta una nuova vita. È una lettera con la quale da un lato vorrei dichiarare la fine di un percorso, di una stagione lunga un secolo, quella del partito, della rivoluzione industriale e dell'appartenenza alla classe, quindi di un certo modo di intendere la modernità, e nello stesso tempo tento di riaffermare un essere comunisti oggi per poterlo restare domani. Per essere gli stessi occorre cambiare rispetto al mondo che cambia. Questa del resto penso sia l'essenza del pensiero gramsciano, al di là delle sue analisi, dei suoi studi e del suo pensiero legati ad un periodo storico di grande trasformazione. Gramsci è per me soprattutto colui che più di ogni altro apre il pensiero socialista alla modernità. A Gramsci oggi dico che c'è un punto di non ritorno, che siamo alla fine della storia, che il processo di emancipazione, e quindi di modernità, si prepara ad affrontare altre strade, altri cammini, altri panorami. Per questo torno sulle tracce dell'avvento, del messianesimo, quelle tracce profonde di Simon Weill, di Heidegger, di Benjamin fino all'ultimo Mario Tronti».
È per questo motivo che nel disco compare una elaborazione grafica dell'Angelus Novus di Klee?
«Esattamente. Se nel quadro di Klee l'Angelo viene strappato dalle rovine dalla tempesta del progresso, oggi noi lo facciamo ritornare lucente, dorato, doppio nei suoi contorni identitari. È un simbolo ("senza simboli siamo spenti", scriveva Cassirer) un logo, un totem fatto di luce. Siamo tornati alla fine della storia, al punto della rivelazione, quindi dell'apocalisse. E da qui occorre balzare in avanti, superare la palude e il tradimento del progresso senza sviluppo e viceversa (torna Pasolini, come sempre ) e proseguire lungo i territori dell'emancipazione, quindi della modernità.
Balzare in avanti è tornare al punto di partenza, al paradiso perduto, è la resa dei conti con il sacro, con ciò che è inviolabile e ci rende una cosa sola: l'umanità, la città futura ha già un nome: Cosmopoli. Il futuro si potrà costruire con le nostre tradizioni: la tradizione cristiana, quella dei Balducci, Zanottelli, Ciotti, Puglisi, Don Gallo, i Beati Costruttori di Pace. La tradizione socialista e Gramsciana dove però oggi la modernità - e quindi la Rivoluzione - consiste nel riconciliare il genere umano con la Terra, e non nell'americanismo industriale che ci ha umiliati e alienati con la "catena di montaggio". E poi la tradizione delle minoranze: le sinistre eretiche degli anni Settanta, il movimento delle donne, i migranti e l'incontro con l'altro, le subculture, quindi il rock'n'roll. Nell'incontro con queste tre grandi tradizioni nostre ritroviamo gli strumenti culturali e politici per costruire il futuro. Queste tre tradizioni ci riportano all'inizio delle civiltà, ai primi passi del cammino dell'uomo nella storia... dove le leggi e le religioni si ritrovano in un unico principio, "non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te". Se togli questo punto crolla ogni civiltà, ogni legge, ogni religione... E l'Angelus Novus ritorna per ricordarci che l'ateismo di massa ha distrutto ogni utopia e ogni sogno. Di fronte alle nuove narrazioni del Mito noi restiamo immobili, non camminiamo più, siamo paralizzati dalla paura e immobili continuiamo ad adorare quello che oggi è di fatto diventato una divinità, il dio profitto. Quel dio a cui si sono arrese tutte le ideologie figlie di un pensiero illuminista e scientifico. Tornano Heidegger e Simon Weill accanto alla modernità gramsciana, e insieme a... all'Angelus Novus. Ma passando per l'ultimo Mario Tronti e Balducci. C'è un tempo dell'essere e uno dell'esistere. Il disco Sangue e cenere è un viaggio su una fune che unisce i due tempi. È un disco per funamboli alla ricerca di una nuova relazione fra i principi di sempre, che restano eterni agli estremi: odio e amore, guerra e pace, sangue e cenere. La redenzione passa attraverso la memoria, il ricordo delle vittime il loro riscatto: le storie! L'Angelo di Klee torna per frugare fra le rovine e con i frammenti ritrovati ricostruisce una memoria».