È il decano dei festival folk italiani, e quest’anno tocca le quaranta edizioni: è Folkest, che torna fino all’8 agosto in varie località del Friuli (la chiusura a Udine con una delle date italiane di Joan Baez, prima dell'annunciato ritiro).
Passato attraverso cambi di gusto e di mode, aggiornatosi – come è ovvio che sia – nel corso degli anni, il festival friulano è sopravvissuto tenendo sempre alta la barra della qualità della programmazione, “cedendo” ai grandi eventi di piazza ma puntando sempre sulla diffusione sul territorio, sul radicamento e sui giovani (anche attraverso il concorso Suonare@folkest, ormai punto fermo da anni).
È l’occasione buona per una chiacchierata con Andrea Del Favero, direttore artistico del festival oltre che musicista (con La Sedon Salvadie) e "operatore culturale" di una scena che è andata costruendosi, negli ultimi quattro decenni, anche intorno al "suo" Folkest.
Intanto, che cosa è successo quarant’anni fa?
«È successo il terremoto, ed è stata una scossa anche per le coscienze. Io avevo vent’anni, non ho fatto il militare e ho fatto il servizio civile in aiuto ai terremotati: c’è stato un mettersi a disposizione della comunità in maniera nuova, anche molto profonda. Le conseguenze sono state importanti: sai, noi in Friuli abbiamo la “malattia del mattone”: i nostri emigranti, non appena guadagnavano qualche soldo si facevano la casa al paese, anche se poi non ci sarebbero mai più tornati a vivere. Siamo disseminati di castelli, c’è sempre stata questa fascinazione… Noi da bambini siamo cresciuti in un Friuli molto rurale, che è quello di Pasolini, delle leggende popolari… Il terremoto ha tirato giù quasi tutto, si è rotto quel fil rouge che avevamo con la nostra storia».
E da lì?
«È venuta la voglia di riscoprire le nostre radici, ma avevamo già una mentalità da giovani europei: come prima cosa abbiamo cercato il confronto con altre minoranze etniche – o maggioranze che siano! Sai, in Friuli siamo ci sono i friulani, ma anche aree venete autoctone, tre tipi di tedeschi, slavi, ladini centrali… Abbiamo incontrato bretoni, irlandesi, catalani, scozzesi, anche perché erano le scene musicali folk che più erano emerse negli anni Settanta».
«Noi da bambini siamo cresciuti in un Friuli molto rurale, che è quello di Pasolini, delle leggende popolari… Il terremoto ha tirato giù quasi tutto, si è rotto quel fil rouge che avevamo con la nostra storia».
«Da lì è partita l’avventura. È stata una cosa di movimento, avevamo una delle primissime radio private, iniziata subito dopo il terremoto, nel 1976: Radio Rinascita Friuli Centrale, si ascoltava anche nelle tendopoli. Da lì è nato il progetto del Festival. A un certo punto c’è stata una frattura nell’associazione, le solite cose. Abbiamo fondato una cooperativa per gestire il festival, che si è chiamato Fieste di chenti, e poi Folkest».
Tu sei stato tra i primi animatori di quella scena del folk italiano. Vista da oggi sembra essere stata vivacissima – al punto che molti dei personaggi di allora sono ancora oggi i protagonisti delle varie scene regionali. È un’impressione sbagliata? È stata una stagione irripetibile?
«In un’edizione tipica di Folkest, nei primi anni Ottanta, potevi avere insieme Caterina Bueno con Riccardo Tesi e Alberto Balia in formazione, Cantovivo, Prinsi Raimund, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Elena Ledda con Suonofficina, il Canzoniere del Lazio… Una line-up da paura, rivedendola a distanza di anni. Erano tutti gruppi pieni di creatività, estremamente personali, con grande attenzione ai colori, allo strumentario… Sono cose che non trovi nei gruppi di adesso, che sono spesso uno uguale all’altro. Per dire, erano tutti gruppi senza cajòn, e i bouzouki li avevano i gruppi del sud. Adesso…».
Secondo te quali sono le ragioni di questa minore varietà?
«Il diffondersi generalizzato della world music ha uniformato molto, e negli ultimi anni il dilagare del bal folk ha portato a una disattenzione verso i repertori tradizionali locali. Un gruppo che oggi fa musica per il bal folk non fa differenza tra una manfrina piemontese e una manfrina friulana, perché suona per un pubblico che balla in un modo semplificato, che non distingue tra l’una e l’altra… Non è un giudizio negativo, è constatare che c’è stata una deviazione. Noi eravamo molto attenti a quelle cose, il repertorio della Val Resia – per dire – va suonato e ballato in quella maniera lì, e con quelle sonorità. L’elemento tradizionale vero, originale, va lasciato lì. Poi se lo vuoi rielaborare, va benissimo, ma diventa un’altra cosa. Il rischio è che diventi un minestrone sradicato. È come dire “tutto il sud è pizzica”: si è massificato il ballo popolare. E poi in Italia si sta perdendo il gusto del “comporre in stile”, non è stato approfondito, e si sta andando verso un generico pot pourri di suono».
Vedi delle differenze invece nel pubblico, per quanto immagino possa essere difficile riassumere quarant’anni…
«…è più facile di quanto tu creda. All’inizio c’era questo pubblico politicizzato, di appassionati, un po’ fricchettone, woodstockiano per capirci. Poi si è evoluto in un pubblico molto più attento, conoscitore… e poi l’evoluzione è stata che quelli sono diventati padri e nonni, quelli delle prime edizioni, e il nostro è diventato anche un pubblico di famiglie. Poi da un certo punto in poi c’è stato un pubblico attirato dai grandi nomi, che ha portato anche un po’ di non-comprensione dello scopo vero del festival».
In che senso?
«Se vai a Folkest e ti vedi Bob Dylan e i Jethro Tull è una cosa, ma lo scopo del festival, il suo perché, sono i gruppi folk che girano tutta la regione, è quello. Non abbiamo mai cavalcato le mode: nel 1984 quando tutti facevano i festival celtici noi abbiamo fatto un’edizione tutta con artisti italiani. Un disastro economico che ti lascio immaginare. In questo senso siamo sempre stati controcorrente, come prima eravamo stati i primi a portare i musicisti celtici, e poi anche i grandi gruppi dell’est, tipo Muzsikás…».
Se ti chiedessi di scegliere un paio di ricordi in quarant’anni di storia, quelli a cui sei più legato...
«Una jam session fatta a San Daniele con molti musicisti: Riccardo Tesi, noi di La Sedon Salvadie, Dina Staro… mentre stavamo suonando è arrivato Alan Stivell. Noi suonavamo in sol, e lui ha detto “io ho la cornamusa in si bemolle e vorrei suonare con voi”… e io e gli altri organettisti abbiamo fatto una sezione ritmica di tamburelli!».
«Se vai a Folkest e ti vedi Bob Dylan e i Jethro Tull è una cosa, ma lo scopo del festival, il suo perché, sono i gruppi folk che girano tutta la regione».
«Poi Joan Baez, quando è venuta a Spilimbergo nel 1994: ha visto una bicicletta, ha chiesto se era nostra, ed è partita in giro per il paese. E poi un fine concerto del 1998, con Fabrizio [De Andrè], a fianco del palco seduti su un muretto a chiacchierare – con il suo povero autista lì che doveva riportarlo a Milano. Abbiamo parlato fino alle ore piccole, di cose da fare, di una canzone friulana che doveva mettere nel nuovo disco, che ci saremmo rivisti a gennaio…».
Un concerto che volevi fare e non sei mai riuscito a fare.
Facile: Joni Mitchell. Mentre Paul Simon abbiamo deciso di non farlo, per non farci del male, visto il rapporto costi-pubblico».
Veniamo al programma del 2018: se dovessi consigliare tre eventi imperdibili.
«Joan Baez a parte, io direi… a Capodistria Arsenale oltremare, progetto di Calicanto su musiche venete dell’adriatico, e il concerto di Mostar Sevdah Reunion. Poi Amira Medunjanin a Gorizia. E a Spilimbergo gli Irdorath, dalla Bielorussia, uno strano gruppo di folk-metal fantasy».
Qui il programma completo.
il giornale della musica è media partner di Folkest 2018.