Park Jiha, una notte al museo

Una chiacchierata con l'artista coreana Park Jiha, in tour in Europa per presentare l'album The Gleam (Glitterbeat)

Park Jiha
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Si è tenuta lo scorso 1 dicembre al MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino l’unica data italiana del breve tour europeo della musicista sud-coreana Park Jiha: oltre a quella torinese – all’interno della mostra Buddha 10 che aveva già visto l’esibizione del duo sud-coreano Dal:Um –, sette date di cui due a Londra, una ad Atene e quattro in Belgio.

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È stata l’occasione per ascoltare dal vivo e nella sua interezza The Gleam, il suo ultimo album pubblicato lo scorso mese di febbraio (ne avevamo parlato qui), e per vedere Park Jiha alle prese con strumenti della tradizione musicale sud-coreana quali il piri, il saenghwang e lo yanggeum.

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L’ambientazione in un museo, le piante e un piacevole, leggero suono in sottofondo di acqua corrente hanno accresciuto il fascino delle otto composizioni, lasciando intatto il loro mistero; a ben pensarci, l’ambientazione museale è quella ideale, come un cerchio che si chiude, visto che il primo brano entrato a far parte di questo disco, “Temporary Inertia”, fu creato per una performance come «improvvisazione meditativa in un bunker progettato dall’architetto giapponese Ando Tadao all’interno del San Museum di Wonju, in cui il soffitto ha un’apertura che permette alla luce di attraversare la stanza; si muove lentamente durante il giorno e trasmette un’impressione speciale quando si è all’interno».

Eleganza, disciplina e rispetto, sono questi i valori che il concerto di Park Jiha ha trasmesso a un pubblico attento e pronto ad accompagnare la musicista nel suo viaggio mentale sostenuto da sonorità ancestrali create dai suoi strumenti per noi inusuali. Fisicamente esile ma con un evidente controllo mentale totale, Park Jiha non ha mai parlato tra un brano e l’altro, se non alla fine quando, dopo aver ringraziato gli intervenuti, ha introdotto l’ultimo brano con queste parole: «Questa è l’ultima canzone prima di salutarci: è molto rilassante e, se volete, potete anche chiudere gli occhi o addirittura addormentarvi. Vi chiedo solo la cortesia di non russare [risate]».

Park Jiha è rimasta a Torino tre giorni e quindi c’è stato il tempo per una piacevole chiacchierata con lei e Curtis, il suo simpatico marito originario di Cagnes-sur-Mer sul punto di aprire un terzo negozio di dischi usati a Seul. Ecco il resoconto di un’oretta trascorsa in loro compagnia due sere prima del concerto.

Non sei molto conosciuta qui in Italia…

«Questa è la tua maniera standard di dare il benvenuto?».

Ahah, lasciami completare la frase: stavo per dire che molto probabilmente il concerto sarà comunque sold out. È vero che il posto è piccolo ma vendere tutti i biglietti non era così scontato.

«Ah, bene. Tu come hai fatto a conoscere la mia musica?»

Chi è che fa le domande qui? [Risate] Ti ho conosciuta perché sono in contatto con Glitterbeat Records, l’etichetta che stampa i tuoi dischi. Al GdM la riteniamo una delle etichette europee più interessanti.

A proposito di The Gleam, pensi di essere riuscita a descrivere la luce con la tua musica o a trovare i loro punti di contatto?

«Ovviamente non c’è una sola luce. Il mio scopo è stato quello di descrivere, per quanto possibile, le diverse energie che si producono a mano a mano che la luce cambia nelle 24 ore. Io stessa ricevo energie diverse a seconda dell’intensità della luce: renderle in musica è stato il mio tentativo, spero riuscito. Se ci pensi, a volte ci sono luci che diventano sfumature perché “oscurate” (scusa il gioco di parole) da luci più intense ed è così anche con la musica: a volte alcuni suoni non vengono quasi captati perché coperti da altri suoni più energici».

Per quanto riguarda la tua musica, tu lavori da sola: quando sali sul palco, non sei mai colta dal panico, dal cosiddetto stage fright?

«Per quanto riguarda i dischi, sì, aver lavorato da sola mi sembra strano, anche perché ancora oggi mi ritrovo a pensare "come ho fatto a portare a termine da sola tutto questo lavoro?!. È davvero sorprendente a ripensarci. Quando sono sul palco non ho paura, anzi essere da sola è una spinta in più ad essere attenta e a cercare sempre di dare il massimo».

Hai fatto due date a Londra e ho letto che sono andate molto bene.

«Sì, è vero. Quando vengo in Europa faccio in modo di avere almeno una data a Londra: è il posto migliore per un musicista perché i club sono belli e il pubblico è molto informato e manifesta un sincero interesse per gli artisti che va a sentire. Anche i giornalisti sono preparati e gentili: anche tu lo sei, malgrado il benvenuto iniziale [risate]».

Ho letto che hai composto The Gleam durante il lockdown.

«A differenza di altri posti, in Corea del Sud non abbiamo mai avuto un vero lockdown, non abbiamo mai dovuto rinchiuderci in casa. Potevamo uscire, gli unici obblighi erano quelli di indossare sempre la mascherina ed evitare gli assembramenti. Quindi per un lungo periodo non ho potuto fare concerti e dunque mi sono concentrata sulla composizione e la registrazione dei brani che sono poi confluiti in The Gleam. Diciamo che il disco non è figlio del lockdown ma della pandemia sì, certo. È stato comunque un periodo duro, anche dal punto di vista economico perché gli artisti non hanno ricevuto aiuti dallo Stato [aspetta un attimo, forse conosco un altro Paese dove è successa la stessa storia…]».

«In Corea del Sud suono dal vivo in media ogni due mesi; i promoter hanno difficoltà a organizzare miei concerti perché non sanno come definirmi: suono strumenti tradizionali ma la mia musica è tutt’altro che tradizionale, è avantgarde, è ambient, è sperimentale, ma certamente non è tradizionale. Probabilmente per me è più facile suonare in Europa, dove si vende la maggior parte dei miei dischi. Sì, i miei dischi hanno venduto piuttosto bene e lavorando anche alla composizione di colonne sonore per il cinema e a musiche per spot pubblicitari di alcuni marchi importanti, anche europei, riesco a vivere con la mia musica. In più, come sottolinea spesso mio marito, non spendo niente [risate]».

E le risate sono proseguite parlando di differenti abitudini, di viaggi, dei rispettivi ascolti musicali nel 2022, della scena nu jazz londinese, di Shabaka Hutchings – al cui nome Park Jiha si è illuminata – e altro ancora. Quella che sul palco può dare di sé un’immagine fredda e distante è in realtà una giovane donna curiosa, molto simpatica e dotata di senso dell’umorismo. Mai giudicare un libro dalla copertina.

Un ringraziamento a Chiara Lee e freddie Murphy, curatori di Evoluzioni Sonore, la sezione musicale di Buddha 10, e a Chiara Vittone, Comunicazione e Ufficio Stampa del MAO.

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