Nuri, la musica tradizionale nei club

Intervista con il produttore tunisino Nuri, fresco di pubblicazione del notevolissimo Irun

Nuri Irun
Nuri (foto Céline Meunier)
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A poco più di tre anni dal precedente Drup, Amine Ennouri alias Nuri, membro del collettivo di global bass Arabstazy, si mette in proprio e dà alle stampe il suo secondo album Irun. Un lavoro eccitato ed eccitante, un’ode alle musiche poliritmiche, un amalgama di diverse tradizioni folkloriche africane e beat elettronici: il risultato riecheggia le tecniche della trance music nord-africana e ci dà lo spunto per una chiacchierata con l’autore.

– Leggi anche: Il passaggio in India di Ammar 808

Trentatré anni vissuti tra la Tunisia, Lione e Copenhagen, Nuri, all’epoca batterista, è un prodotto della scena metal-grunge e reggae tunisina della fine degli anni Novanta – scena semi-clandestina e invisa alle autorità locali in cui sono germogliati i nuovi talenti che hanno dato vita alla nuova scena elettronica tunisina. Spostatosi a Lione nel 2013, è entrato in contatto con il collettivo Arabstazy e coi ragazzi dell’etichetta discografica Shouka Records. Dopo un primo soggiorno nel 2010 sull’isola di Bornholm per realizzare uno spettacolo scritto con la ballerina di butoh Ainara Lopez, nel 2014 Amine fa ritorno in Danimarca e vi rimane fino all’anno scorso, quando fa ritorno a Tunisi, in attesa di trasferirsi nuovamente a Lione tra non molto.

Nuri Irun

È conducendo una vita isolata in una fattoria sull’isola di Bornholm che Amine dà vita al progetto Nuri e in un paio di anni di lavoro, ispirato dal paesaggio circostante e dagli estremi di estati sempre luminose e di bui inverni che sembrano non avere fine, ecco Drup, a cui fa seguito la sua prima live performance a Copenhagen, come spalla di Cristiano Crisci alias Clap! Clap!

Nuri non ha aspettato la pandemia per indossare una maschera: quando si esibisce dal vivo il suo volto è celato da una maschera berbera che lo trasforma in una sorta di sciamano.

«Chiunque può essere Nuri! È questa l’idea della maschera, sparire dietro una forma di anonimato per sottolineare meglio che la mia persona non conta».

«Ho lasciato Copenhagen perché è tutto fermo, non c’è niente da fare e allora sono tornato a Tunisi, ma spero che con la primavera io possa tornare in Francia e in Danimarca. Al momento non me la passo male, sono a casa dei miei genitori, dunque abbastanza tranquillo, ma conosco altri musicisti che stanno letteralmente facendo la fame».

«Ho iniziato a lavorare a questo disco tra il 2018 e il 2019. Diciamo che non ho avuto fretta, anche perché in quel periodo ho fatto molti concerti: è un disco nato sulla strada, quando mi fermavo ci lavoravo su».

«Il mio modo di lavorare non è immediato, porta via molto tempo: lavoro su delle registrazioni fatte sul campo – canti tradizionali berberi, suoni poliritmici provenienti un po’ da tutti i Paesi africani –, taglio e cucio, aggiungendo beat elettronici di mia creazione. Molte cose le prendo dai dischi dell’Unesco che hanno raccolto negli anni 1965-1966 i canti tradizionali, altre me le mandano gli amici: quando trovo qualcosa che mi fa vibrare, lo metto all’interno di un programma software e comincio a lavorare nel mio piccolo studio, dove ho un microfono e le percussioni, aggiungendo i bassi e l’elettronica. È un lavoro certosino, ti assicuro che porta via un sacco di tempo. Nel corso degli anni mi sono reso conto che la gente balla la mia musica non perché ci sono i bassi ma per l’atmosfera mistica che riesco a creare, una sorta di trance music».

«Il mio obiettivo è quello di portare la musica tradizionale all’interno dei club».

«Tra i miei due dischi non ci sono grandi differenze, il modo di lavorare è stato lo stesso ma in Irun ho messo più percussioni. Il primo è stato per me una continua scoperta, non avevo mai fatto un beat, non avevo mai lavorato con un computer; col secondo è stato più semplice, sapevo arrivare più rapidamente all’obiettivo».

«La scena di Tunisi era molto vivace ma semi-clandestina. Io suonavo con un gruppo insieme a mio fratello, lui era marxista, avevamo testi politici contro la dittatura, puoi immaginare la reazione della polizia, ci adorava, ci portava i fiori (risate). Una volta ci siamo messi d’accordo col proprietario di un bar in quartiere popolare per una serie di concerti: a ogni concerto il pubblico aumentava, al punto che il proprietario era costretto ad aggiungere tavoli e sedie, la gente ascoltava i testi ed era molto interessata. La voce si sparse e arrivò all’orecchio dei poliziotti che una sera si presentarono al concerto: ci lasciarono suonare, anzi seguirono l’esibizione con molta attenzione, e al termine dissero al proprietario che, se avessimo suonato un’altra volta, gli avrebbero chiuso il locale e arrestato tutti i presenti».

«Non ascolto molta musica elettronica, a parte quando vado nei club o ai festival; io mi sposto molto, quando sono sui treni generalmente ho il mio riproduttore musicale e ascolto reggae, i Pink Floyd o i gruppi che i giovani ascoltavano a Tunisi in quegli anni, soprattutto i Deep Purple: quando vivi sotto una dittatura, la musica che ti permette di sbattere la testa è già una forma di libertà. Se poi vuoi sapere quale musica mi ispira per la creazione dei beat, ti posso solo rispondere che non lo so».

«Quando vivi sotto una dittatura, la musica che ti permette di sbattere la testa è già una forma di libertà».

«Quando ho iniziato a esibirmi da solo ho deciso di indossare una maschera perché avevo paura dell’attenzione del pubblico su di me, sono una persona timida, arrossisco facilmente. Una volta terminata la mia esibizione, rientro nel camerino, cambio gli abiti e a quel punto esco senza maschera, mi mischio alle persone, tanto loro non capiscono che sono la stessa persona che stava sul palco».

«In Danimarca ho fatto un po’ di tutto, anche il giardiniere: mi piaceva stare all’aria aperta, mi consentiva di avere la mente libera alla sera per lavorare al computer alla mia musica. E ovviamente suonavo, in un gruppo reggae, in un altro rock, in un altro ancora di musica balcanica, ho fatto anche musica da ascensori. Ho organizzato quattro edizioni di un festival sull’isola di Bornholm tra mille difficoltà: avevo i soldi per vivere ma non per sostenere le spese di un festival e allora ho coinvolto degli amici come volontari e ho invitato dei musicisti che sono venuti a suonare gratis. È successo anche a me e ti assicuro che, se il progetto ti piace, quando sali sul palco dai il massimo perché sei totalmente motivato e l’atmosfera che riesci a creare è elettrica».

«Cosa succederà nei prossimi mesi? Per il momento qui c’è il coprifuoco, il picco della seconda ondata l’abbiamo già raggiunto – così ci hanno detto – e mi piacerebbe poter tornare a esibirmi di fronte al pubblico. Ho intenzione di lavorare a un film con musiche mie: diciamo che i progetti non mi mancano ma non so quando potrò portarli a termine».

Nel frattempo, ci dedichiamo all’ascolto di Irun, coi suoi dettagli musicali stratificati che hanno come obiettivo un’esperienza multi-sensoriale, declinata in otto brani che hanno come titolo otto diversi colori.

Anche la copertina dell’album è a suo modo multi-sensoriale: ideata da Yacine Blaieche – visual artist, pioniere della scena underground di Tunisi e fondatore dello Studio MOGLI –, è stata realizzata in linguaggio Braille in modo che i polpastrelli dell’ascoltatore scorrano su di essa fino ad arrivare al titolo Irun. La miglior introduzione possibile all’esplosione di ritmi a cui si sta per andare incontro. Come disse Johnny Cash, get rhythm!

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