In ammirabile continuità con le programmazioni delle precedenti edizioni, anche il Jazz Is Dead 2024, che si è svolto dal 24 al 26 maggio, è riuscito a creare un cartellone combinando la presenza di nomi nuovissimi con artisti d’esperienza, attivi da anni e talvolta anche ingiustamente dimenticati.
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In questa sede ci piace ritrovare il filo conduttore che ha portato al festival torinese due icone dell’elettronica degli anni Novanta: Moritz von Oswald e DJ Storm. Due personaggi diversissimi fin dagli esordi, seppur entrambi nomi importantissimi nel loro ambito di riferimento, che curiosamente si sono ritrovati a condividere il palco durante la stessa rassegna, a trent’anni di distanza, e con un’età anagrafica ormai attorno ai 60.
Von Oswald, tedesco di Amburgo ma berlinese d’adozione, ha iniziato a pubblicare dischi a suo nome (o meglio, insieme ad altri illustri personaggi, come Carl Craig o Juan Atkins; o ancora come Moritz von Oswald Trio) solo nel 2008.
La sua carriera era però iniziata già negli anni Ottanta, quando suonava la batteria nel gruppo new wave dei Palais Schaumburg, per avere poi una svolta decisiva nel decennio successivo, quando subì il fascino della nascente musica elettronica digitale. Come Aphex Twin, divenne uno di quei produttori che, celandosi dietro un’infinità di pseudonimi, avevano creato uno stile riconoscibilissimo. Di fatto, il suono della Basic Channel (label cofondata da Moritz nonché uno dei suoi pseudonimi da produttore, oltre a Maurizio, Marathon, Quadrant… e moltissimi altri) rimane, per un appassionato di techno, uno dei più distintivi e coraggiosi sound di quell’epoca di scoperte avventurose.
Spoglio e minimale, scuro e alieno, pieno di riverberi dub incrociati a staffilate ritmiche di cassa dritta, non era ovviamente fatto per sfondare nel mainstream, ma ha lasciato un’influenza incalcolabile in tutte le produzioni electro-dub, prefigurando in una certa misura anche l’avvento del dubstep.
«Per me lo stimolo principale è sempre la sperimentazione».
Nel corso della sua carriera, von Oswald ha via via arricchito il suo suono in modi diversi; ad esempio, in Re-Composed con Carl Craig, album uscito su Deutsche Grammofon, ha rielaborato in chiave techno partiture di musica classica. La costante, per Moritz, è stata mantenere sempre fede ai suoi principi originali: «Per me lo stimolo principale è sempre la sperimentazione», ci dice in una chiacchierata volante a ridosso della sua esibizione al Jazz Is Dead, il venerdì 24. «Ho in qualche modo esaurito il tipo di ricerca dei miei inizi, ma ho continuato a esplorare in modi diversi, alla ricerca di una architettura ideale per il suono [ricordiamo a questo proposito il titolo non casuale di due dei suoi album: Vertical Ascent e Horizontal Structures], con il giusto equilibrio, la giusta profondità».
La serata di venerdì si è così sviluppata su una stratificazione sonora che ha ben poco a che vedere con il minimalismo della Basic Channel, che si sente quasi solo in certe strutture ritmiche di dub sincopato e distante. Tra layer di tastiere sovrapposte a droni inquietanti e suggestioni di musica sacra imbastardita dai beat, il set di von Oswald è probabilmente meno originale e inquieto di quelli di trent’anni fa, ma acquisisce in eleganza e spessore formale.
Chissà se il pubblico lo recepisce in modo molto diverso? «No!», dice Moritz. «Non c’è differenza, il mio pubblico non è cambiato!».
«Se c’è una cosa che è completamente diversa nel pubblico odierno rispetto a quello degli anni Novanta, è sicuramente l’uso degli smartphone!».
«Se c’è una cosa che è completamente diversa nel pubblico odierno rispetto a quello degli anni Novanta, è sicuramente l’uso degli smartphone!». Questo è invece il parere di Storm, iconica dj di drum’n’bass, che ci ha raccontato qualcosa di sé al telefono, un paio di giorni prima della sua esibizione al Festival, nella notte di sabato 25. «Io sono di un’altra generazione e non capisco molto questa insistenza a voler fissare in un video una serata, invece di viversela senza pensare ad altro… ma evidentemente oggi le cose funzionano così!».
Storm (vero nome: Jayne Conneely) è una vera e propria pioniera del genere, meritandosi addirittura la qualifica di “First Lady of Drum & Bass”. Nei primi anni Novanta vive la stagione dei rave londinesi insieme alla sua inseparabile amica DJ Kemistry e a un certo Goldie. Tre personaggi che finiranno col fondare la Metalheadz, probabilmente la più influente label del drum’n’bass anni Novanta; di lì a poco le serate animate da Kemistry & Storm, che iniziano a lavorare stabilmente in coppia, sono tra le più gettonate del paese.
Nella seconda metà del decennio il loro genere è tra quelli di maggiore successo popolare; il duo raggiunge il culmine di popolarità con la pubblicazione di un loro mix sulla pregiatissima serie DJ Kicks della K!7. Beffa del destino, nella primavera del ’99 Kemistry muore improvvisamente in un assurdo incidente automobilistico, lasciando Jayne da sola, che tuttavia stringe i denti e continua a lavorare come dj, senza mai pubblicare un disco a suo nome: «Se avessi pubblicato degli album, avrei avuto meno libertà d’azione durante i miei dj set: la gente avrebbe reclamato i pezzi che conosceva, mentre io voglio poter spaziare senza condizionamenti su tutto quello che mi piace».
E quello che piace a DJ Storm, c’è poco da fare, è il drum’n’bass, in tutte le sue forme: dalla jungle della prima ora, in cui la predominanza ragga era ancora evidente (e che sta avendo un’inattesa riscoperta anche in tempi recenti, ad esempio con un personaggio come Bou) al tech-step al neurofunk.
Cosa che è apparsa evidente anche nel corso della sua esibizione al Jazz Is Dead, condotta in impeccabile abito lamé e capace di attraversare tutti i sottogeneri del caso. Caduto rapidamente in disgrazia dopo un lustro in cui era sembrato lo stile più futuribile della musica di fine secolo, il drum’n’bass è tuttavia rimasto vivo per una nicchia di fedelissimi, dei quali Storm, fedele fino ad oggi a quell’idea, potrebbe essere la portabandiera: «C’è ancora una scena d’n’b in Inghilterra, e sono orgogliosa di farne parte. D’altronde, la mia unica motivazione quando suono in un club è selezionare musica che mi piace; e quando sento i miei dischi, riesco ancora a eccitarmi come se fosse la prima volta…».
E quindi, come darle torto?