Se ne dicono tante sul jazz italiano.
I più smaliziati cercano - ciclicamente e senza eccessiva fortuna - di utilizzare l'etichetta "jazz italiano" per rafforzare il zoppicante senso del marketing che affligge un po' tutte le frange del sistema, unendo esperienze e linguaggi che spesso non hanno molto in comune.
Molti musicisti si lamentano, non senza un certo grado di ragione, che una bella fetta della già non ricchissima torta se la portano via i soliti noti.
Con un po' di realismo non è difficile capire come la fotografia di chi in Italia fa oggi jazz sia affollatissima e stilisticamente varia, in un contesto che i grigi economisti dipingerebbero senza indugi come un eccesso di offerta rispetto alla domanda. Il che non toglie che il livello qualitativo sia mediamente alto e che i linguaggi cui i nostri musicisti si rivolgono siano i più vari, come confermano cinque dischi usciti da poco e che abbiamo scelto a testimonianza di questa varietà.
Il primo disco è Astrea (CamJazz), che vede Mattia Cigalini (nella foto) in trio con il pianista Gianluca Di Ienno e il batterista Nicola Angelucci. Segnalatosi negli ultimi anni come una delle giovani voci sassofonistiche più promettenti, Cigalini (qui al contralto e soprano) sceglie qui una formazione senza contrabbasso e la riempie di melodie ariose e atmosfere danzanti.
Cigalini, riesce qui con crescente maturità a incanalare l'irruenza quasi travolgente del suo solismo in strutture che si addensano e diradano con naturalezza e, ben supportato dai due compagni d'avventura, racconta sette storie originali che non dimenticano la cantabilità. Chiude il disco una versione straniante di "White Christmas".
Decisamente più sperimentale è l'Extemporary Vision Ensemble diretto da Francesco Chiapperini. Nove musicisti che dal vivo rendono omaggio a Massimo Urbani, incanalando le proprie energie in due lunghe cavalcate (seguite da quattro episodi più brevi) di sapore fortemente post-free, spirituali e lacerate.
La presenza di violino e violoncello dona una stratificazione che rimanda a alcune esperienze newyorkesi e chicagoane degli anni Settanta, ma il merito di Chiapperini e dei suoi "prodi" è quello di mantenere in questo Our Redemption (Rudi Records) una forte coesione pur nell'alternarsi di momenti collettivi a altri di più diradato monologo. Molto bello.
Profuma di viaggi e di suoni del mondo invece il nuovo lavoro del sassofonista Marco Castelli, intitolato, non a caso, Porti di mare (Caligola Records). Musicista che ha visitato molti luoghi e che ha un'istintiva capacità di cogliere gli aspetti più comunicativi e danzanti delle situazioni con cui si è confrontato, Castelli allestisce qui un rutilante carnet de route tra Africa e America Latina, ben sorretto da un quintetto in cui spicca Alfonso Santimone al pianoforte e che è completato da Edu Hebling al basso e dalle percussioni di Andrea Ruggeri e Mauro Beggio.
Oltre ai temi scritti dallo stesso Castelli, c'è spazio per un medley Jelly Roll Morton/Tom Waits, per un classico argentino come "Alfonsina y el Mar" di Ariel Ramirez, per "El Ciego" del messicano Armando Manzanero e per una rilettura del bolero verdiano "Mercè Dilette Amiche", dai Vespri Siciliani. Tutto estremamente fresco e convincente. Buon viaggio.
Segnaliamo con piacere anche Another Point Of View (TRJ Records) del quintetto del trombonista Beppe Di Benedetto, formazione solida e ben ancorata dentro i linguaggi del jazz europeo contemporaneo. Il che significa forme che si aprono senza perdere di riconoscibilità; attenzione alla tradizione e all'eleganza della polifonia (con Di Benedetto ci sono Emiliano Vernizzi al sax, Luca Savazzi al piano, Stefano Carrara al contrabbasso e Michele Morari dietro i tamburi); forte evocatività dei temi.
Tra i pezzi più convincenti del disco citiamo la title-track, ma anche la frizzante "My Bright Place" e la brumosa "Space Time Travel".
Chiudiamo la cinquina con il pianista Rosario Di Rosa, che ha pubblicato in queste settimane Pop Corn Reflection (NAU Records). In trio con basso e batteria, ma anche con un forte uso dell'elettronica, Di Rosa lavora sull'interessante intersezione tra jazz e minimalismo, costruendo i brani a partire da semplici cellule ritmiche, melodiche o armoniche.
Pur non essendo un'idea del tutto nuova (pensiamo ad esempio al lavoro dei Dawn Of Midi, che pur guarda al mondo della techno, ma anche a alcuni momenti di Vijay Iyer), il lavoro del pianista ha il pregio di scegliere strategie formali che aprono a ascoltatori anche non necessariamente jazz e spicca per freschezza in questa primavera jazz.