In questa estate 2018 calda e – per molti versi, ahinoi – tormentata, si è parlato molto di Black Noise 2084, il disco di Dj Khalab (al secolo Raffaele Costantino, noto anche agli ascoltatori di Radio2 per il bel programma MusicalBox) che approfondisce in modo definitivo il rapporto con i suoni dell’Africa nera già impostato con Beat Tape.
Se n’è parlato in tutta Europa, perché – ogni tanto succede, per fortuna – del lavoro di un musicista italiano ci si accorge colà dove si puote (leggasi “influencer londinesi”), perché alla base c’è un intenso lavoro di scavo e archivio, perché l’esito è politico e scuro, intenso e coinvolgente. Diversi gli ospiti del disco, da Shabaka Hutchings a Moses Boyd, da Tamar "The Collocutor" Osborn, a Gabin Dabir, passando per Tenesha The Wordsmith, il batterista Tommaso Cappellato, Prince Buju e un altro meraviglioso producer di casa nostra come Clap! Clap!
Abbiamo colto l’occasione dell’uscita e del successo del disco, per una lunga chiacchierata con Raffaele Costantino, artista che grazie alla propria flessibilità e intelligenza si è rivelato interlocutore estremamente interessante anche al di là dei temi strettamente legati al disco.
Inizierei la nostra chiacchierata dal disco appena uscito, Black Noise 2084. Come nasce questo lavoro, che mi sembra sintetizzi in modo elettrizzante la tua ricerca tra musica africana e elettronica?
«È un lavoro che è durato due anni, iniziato con la ricerca all’interno dell’archivio di field recordings del Royal Museum for Central Africa di Bruxelles. Mi hanno dato la possibilità di utilizzare un archivio molto prestigioso, che racchiude più di 30 anni di registrazioni fatte in Africa centrale».
«Quindi gli ingredienti del lavoro sono: Africa (scura), elettronica (scura) e jazz-soul (contrasto)».
«La prima parte (anche la più complessa) del lavoro è stata quella di individuare le registrazioni più vicine all’estetica e al concetto della musica di Khalab. Da lì in poi ho iniziato a campionare, tagliare, editare quei file per poi contestualizzarli nel mio mondo. Tanta elettronica scura, bassi compressi, poco respiro armonico, ripetizioni ossessive e tanta ansia. A quel punto ho iniziato a lavorare con alcuni dei miei musicisti preferiti (con i quali avevo già avuto modo di collaborare per remix o produzioni) per aggiungere gli elementi di cui avevo bisogno per rendere il tutto più potente ed umano allo stesso tempo. Quindi gli ingredienti del lavoro sono: Africa (scura), elettronica (scura) e jazz-soul (contrasto)».
Come costruisci solitamente un pezzo? Da cosa parti? Hai un archivio di campioni? Insomma svelaci qualche retroscena tecnico del tuo lavoro…
«Dipende dai progetti, nel lavoro con Baba Sissoko edito da Wonderwheel, si partiva da mie composizioni ritmiche per poi studiare con lui armonie e melodie, senza usare nessun campione. Per Beat Tape (uscito su cassetta per la Black Acre) ho fatto tutto con un campionatore nel quale tritavo campioni per poi frullarli insieme ai beat realizzati sul momento, tutto molto intuitivo, senza troppa post produzione, provando a mantenere lo spirito dei campioni originali, enfatizzando i rumori di fondo, anzi aggiungendone altri».
«Questo disco rappresenta la sintesi, quindi l’evoluzione di questi due approcci. Da un punto di vista tecnico ho provato a usare pochissime macchine, per avere un suono unico, compatto. Una 808 come drum machine. Un campionatore SP404 SX, un Moog e un Krumar per i bassi, un Juno 106 come synth e poi un segreto che non posso svelare, come per la Coca Cola [ride]».
Una delle caratteristiche del disco, ma anche in genere di altri tuoi progetti, è quello di unire all’aspetto produttivo elettronico anche una forte componente umana e live. Collabori spesso con jazzisti e improvvisatori e anche nel disco troviamo il segno di musicisti come Moses Boyd, Shabaka Hutchings e Tommaso Cappellato. Come funziona l’equilibrio tra queste componenti?
«Io sono prima di tutto un DJ. Un DJ, a prescindere dal tipo di musica che suona o dal valore della sua ricerca, conosce perfettamente l’importanza delle dinamiche di interazione tra la musica e le persone che la ascoltano. Questa sensibilità da DJ mi ha sempre portato a ricercare in questo senso. Per me l’aspetto più interessante sta nel capire come la mia musica viene recepita e interpretata dai musicisti “tradizionali”, cioè quelli veri! [ride]».
«Con ognuno di loro chiaramente ci sono interazioni diverse, feeling differenti, ma quello che noto sempre è che rimangono sorpresi dal modo in cui io interagisco con loro sia dal vivo che in studio. Una volta Fabrizio Bosso, alla fine di un nostro show in duo a Milano mi ha detto : “ma tu non sei un dj, tu sei un musicista”. Io ho risposto che per me si parla assolutamente della stessa cosa. Per quanto riguarda i musicisti che suonano nel disco, lasciami citare anche la meravigliosa sassofonista Tamar Osborn (leader del progetto The Collocutor) e il mio eroe personale, padre spirituale, maestro di musica, amico e mentore, Gabin Dabiré».
Un altro aspetto molto evidente nel disco, ne accennavi prima, è la scurezza, la forte componente di problematicità, di angoscia, un elemento lontano spesso dalla gioiosità superficialmente attribuita alle sonorità africane legate al ballo…
«Sì, è così. Khalab nasce nella mia testa come un alieno venuto dal futuro e da un mondo distopico e afrocentrico. Ti risparmio tutte le altre pippe concettuali, però è molto importante per me staccarmi dall’immaginario festoso e spensierato attribuito alla musica africana, così come mi interessa poco raccontare in maniera didascalica la ricchezza musicale del continente. Per me non c’è niente di esotico nelle musiche che tratto, ma è l’aspetto spirituale che mi interessa, la profondità dell’origine di quei suoni, di quelle distorsioni, di quei lamenti».
«Per me non c’è niente di esotico nelle musiche che tratto, ma è l’aspetto spirituale che mi interessa, la profondità dell’origine di quei suoni, di quelle distorsioni, di quei lamenti».
«Mi interessa sapere quali droghe naturali siano state usate per raggiungere quel livello di elevazione. Mi affascina quella capacità tutta africana di rimanere agili e lucidi per ore all’interno di una ripetizione ossessiva composta da piccole variazioni che spiccano come un lampo nel cielo. Nella mia musica provo a restituire (a me stesso) queste sensazioni. È un lavoro molto introspettivo, quindi pieno di angosce. Non compongo mai musiche per fare ballare o divertire qualcuno, anche se sono un DJ! [ride].
Ricordo una nostra conversazione qualche mese fa, nella quale si rifletteva sulle età della fruizione delle novità pop e della musica elettronica più legata al dancefloor. Più volte ascoltando Black Noise 2084, che è un disco dalla componente ritmica evidente, ma anche che stimola un sacco di altre angolazioni di fruizione, mi sono chiesto a che tipo di ascoltatori ti stessi rivolgendo…
«Non voglio fare demagogia, ma credimi, non penso assolutamente a nessuno. È un percorso troppo personale e intimo per provare a dirigerlo o comunque contestualizzarlo verso una fascia di gusto. Credo sia questo che funzioni di Khalab. Non è Global Beats, non è Cumbia Digitale, non è Afrobeat. Questo disco è impossibile da catalogare ritmicamente e te lo dice uno che per lavoro cataloga ritmi. So che questo non è un fattore positivo in termini di fruizione, soprattutto in Italia dove la consapevolezza ritmica non è proprio il nostro forte. Siano ancora legati alla melodia, alle canzoni e piano piano stiamo scoprendo cose che nel resto del mondo sono più che scontate. Infatti Khalab è molto più riconosciuto all’estero che in Italia. Purtroppo. Tra 20 anni, con i nuovi ventenni figli delle migrazioni, sarà tutto diverso, come già succede a Londra o a New York».
In questi ultimi decenni abbiamo assistito a una trasformazione abbastanza evidente del rapporto con le musiche che vengono dall’Africa: dalla sbornia “costruita” della world music all’oggettivismo trendy delle tante antologie uscite negli ultimi anni. A me sembra – ma vorrei una tua riflessione su questo e, se del caso, anche una smentita – che con il tuo lavoro un po’ tu “riporti tutto a casa”, nel senso che la naturale dialettica tra le musiche del continente e le pratiche occidentali si fondono in modo coerente. Più volte mi sono trovato a pensare che, in un blindfold test, non avrei saputo dire se il disco potesse essere di un autore europeo o africano.
«Credo che dipenda tutto dalla consapevolezza con la quale affronti, studi, ti confronti con la materia. Se per 20 anni fai il DJ e mischi (nei tuoi set o nelle tue trasmissioni radio, nei mix o nelle line up dei festival per cui curi la direzione artistica) la musica elettronica, le musiche africane e il jazz, a un certo punto quel mix prende forma nei tuoi ragionamenti e di conseguenza ti viene naturale trasportare tutto nella musica che componi. È vero, porta tutto a casa, nel senso che è la sintesi di anni di lavoro e di ricerche sul campo per quanto riguarda l’Africa, nei dancefloor per quanto riguarda l’elettronica e su libri/dischi/concerti per quanto riguarda il jazz».
Nella valorizzazione di linguaggi come il tuo, mi pare che la scena londinese (quella alla Gilles Peterson) sia sempre il palcoscenico migliore, sia per motivi multiculturali che di continuità – in fondo a me sembra che ci sia una linea di continuità, pur con le dovute differenze, con gli anni dell’acid jazz. E si fa sempre un gran parlare di quanto i vari Kamasi, ora Shabaka, eccetera, possano incuriosire al jazz un nuovo pubblico. Io, che anagraficamente ahinoi, ho già visto sorgere a tramontare gli US3, Courtney Pine e Guru, le meravigliose (e ingiustamente sottovalutate) cose della Blue Series della Thirsty Ear e via dicendo, ho qualche dubbio, ma dimmi tu cosa ne pensi…
«Credo che il momento ora sia molto diverso, musicalmente parlando. Ai tempi dell’ acid jazz si provava a evolvere il jazz mettendo gli strumenti tradizionali al servizio delle musiche e dei ritmi dei club. Hip hop, funk, house, downbeat, venivano prodotti utilizzando questi strumenti per provare a “rinnovare” il jazz. La cosa ha funzionato per un po’, fino a che il pubblico non è diventato più maturo e quindi più esigente nei confronti delle produzioni elettroniche e più consapevole rispetto al reale valore musicale del jazz originale. Chi scopriva il il jazz grazie all’acid jazz ha abbandonato il surrogato. Oggi invece i giovani musicisti sono dei jazzisti veri e propri e, soprattutto a Londra, stanno utilizzando gli strumenti tradizionali, parlando un linguaggio tradizionale, ma con la sensibilità di chi, finite le prove, va a ballare nei club. A volte come nel caso di Moses Boyd, o Henry Wu (Kamaal Williams) a fare proprio i DJ».
«Mettere una tromba su una base hip hop o un sax su un pezzo house non è un modo per evolvere il jazz».
«L’aspetto ripetitivo delle sequenze che Shabaka suona con il sax o il clarino sono figlie tanto della tradizione africana quanto dell’approccio al loop dei dj o dei beatmakers. Mettere una tromba su una base hip hop o un sax su un pezzo house non è un modo per evolvere il jazz. Suonare il jazz è il modo migliore per provare ad evolverlo a mio avviso, chiaramente facendolo con un approccio contemporaneo. Questi ragazzi stanno facendo questo, finalmente con pochi spunti e lo fanno partendo dai club, non dalle sale da concerto con le sedie e i “silenzio in sala”».
Questo scenario si sta riflettendo un po’ anche sulla programmazione jazz e dintorni (so che tu sei coinvolto in alcuni festival): se molti programmatori rimangono timidamente legati ai grandi nomi che conoscono e altri invece scommettono su un jazz europeo che è interessantissimo, ma spesso molto lontano dalle pratiche afroamericane, stanno iniziando a farsi conoscere anche dalle nostre parti nomi come Binker&Moses, Shabaka, Kamaal Williams, Makaya McCraven eccetera, magari in cartelloni in cui ci sono i Nu Guinea… Che pubblico stai incontrando e registri in questo senso?
«In questo momento in Italia si stanno delineando due tendenze. Da una parte i festival con una direzione artistica indie/rock/bianca. Questi festival mischiano nelle loro line up tutta la musica ascrivibile a questa anacronistica catalogazione (indie). Dal pop dei nuovi fenomeni post adolescenziali al DJ del momento fino alle reunion dei dinosauri di turno. Questi sono i festival che fanno più numeri in Italia, chiaramente, ma anche nel resto del mondo. Il Primavera di Barcellona è l’esempio perfetto di questa idea di supermercato della musica».
«Da un'altra parte ci sono i festival con una direzione artistica più vicina a un gusto e una cultura nera, quindi anche più vicina all’idea di club culture. In questi festival di solito la programmazione è più lineare, rivolta a un pubblico specifico e più consapevole. Chiaramente in Italia questo è il modello più difficile da sostenere ma a mio avviso il più stimolante. In questi festival credo sia normale vedere Moses o Four Tet (che a Londra condividono anche lo studio) o Tony Allen e i Nu Guinea (che hanno anche fatto un EP insieme), Khalab e Shabaka, Moodyman e Amp Fidller, eccetera. Un esempio perfetto è il Worldwide Festival di Séte, in Francia».
Al di là dei nomi con cui collabori e di quelli che abbiamo citato, quali sono i 5 artisti/dischi di area jazz che più ti hanno colpito negli ultimi mesi, e quali i 5 di area elettronica?
«Area jazz (tralasciando le ristampe):
John Coltrane: The Lost Album
Sons Of Kemet: Your Queen Is A Reptile
Tenderlonious: The Shakedown
Makaya Mc Craven: Where We Come From
Drive!: Drive!»
«Area elettronica:
Knowledge: HEX.PRT 12
RP BOO: I’ll Tell You What
Sami Baha: Free For All
Jon Hassel: Listening To Pictures
Ross From Friends: Family Portrait».
Dalla tua posizione privilegiata di conduttore radiofonico (Musical Box su Radio2), che tipo di evoluzione dell’interesse degli ascoltatori stai notando?
«Stiamo chiaramente vivendo un momento delicato. Non so dove andrà a finire, vedo che i generi si sono mischiati molto. L’ascolto shuffle, Spotify, YouTube, la totale assenza delle radio di flusso, l’appiattimento intellettuale dei social. L’ascolto collettivo si sposta sempre di più verso una conformazione dei generi e dei gusti. Vediamo dove porterà. Per ora questo percorso ha già dato dei frutti, a prescindere dai giudizi di merito. Se ci pensi la trap italiana è frutto di questo percorso. Ci trovi dentro l’elettronica, L’hip hop, il cantautorato, il pop patinato, eccetera. Sono sempre stato a favore dei cambiamenti, osservo curioso. Certo è che il momento di transizione è complicato per tutti».
Com’è andato il tuo interessante libro Storia di una playlist? Quando lo hai presentato a Venezia – e io ho avuto il piacere di introdurre la serata – si parlava di un seguito…
«Bene, sono molto contento. La mia piccola comunità si è ritrovata in quel libro e la cosa mi ha dato davvero molta soddisfazione. Il seguito (che in parte è già scritto e in parte già nella mia testa), è stato messo in stand by per la realizzazione del disco, tra poco sarò pronto a rimettermi sotto e finire il seguito. Il paese saprà aspettare… [ride]».
Quali i tuoi prossimi appuntamenti di rilievo?
«Mentre rispondo a questa intervista, la mia compagna prepara le valige per le vacanze. Da domani si pensa solo a quelle. Poi dal primo settembre si vola in giro per l’Europa per le date. A fine ottobre uscirà anche una versione remix del disco. Inizierà una nuova stagione di progetti bellissimi e di supporto ai musicisti con Soundreef. Ricomincerà il mio show su Worldwide.fm. Ricomincerà Musicalbox, credo nel weekend (sempre che al mio posto non mettano i mix di Paola Perego!) E uscirà il disco di Tenesha The Wordsmith che sto producendo».