1998, bacino del Mediterraneo. Due culture neanche troppo lontane geograficamente intraprendono un programma analogo di consapevolezza e di valorizzazione del senso profondo della propria storia e della propria cultura. Nell’estate del 1998, due festival concettualmente identici si radicano in due “terre spaccate dal sole”, dove “avara è l’acqua a scendere dal cielo”: a Essaouira, in Marocco – il primo –, dedicato alla cultura gnawa e alle musiche dei culti subsahariani del Maghreb; a Melpignano, nel cuore della grecìa salentina (in Puglia) – il secondo –, ispirato al rituale terapeutico del tarantismo e al repertorio di canti e di danze del Salento contadino.
Come l’omologo festival marocchino, il salentino festival de <>bLa Notte della Taranta ha appena festeggiato il ventesimo anno di vita e trasformato radicalmente, nell’arco di due decadi, il volto e le dinamiche socioculturali ed economiche di un’intera area geografica. Entrambi sono riusciti a dimostrare che una tradizione senza tempo e carica di emotività, in molti casi marginale e senza un appiglio di legittimità, può diventare vettore di sviluppo sostenibile.
Il concertone de La Notte della Taranta si è concluso alle prime luci dell’alba del 27 agosto, sfoggiando ancora tutta la sua carica espressiva, il suo slancio festivo e aggregante, ma soprattutto la sua capacità di rinnovarsi, di crescere, di rafforzarsi, pur restando tutto sommato sempre identico a se stesso nella formula e nei contenuti.
In vent’anni di esistenza, La Notte della Taranta ha avuto il tempo e l’opportunità di evolversi e di far evolvere i suoi attori da musicanti a musicisti professionisti, da amministratori locali a protagonisti della politica regionale, e in qualche caso nazionale; di modificarsi e di modificare gli assetti territoriali, il turismo, le politiche culturali. Non c’è attore o detrattore che in Salento, o in contesti satellite al mondo salentino, negli ultimi vent’anni non abbia beneficiato, direttamente o anche indirettamente, sostenendo l’evento ma anche criticandolo e persino denigrandolo, dell’esistenza di questo festival.
In vent’anni, La Notte della Taranta è diventato un “mondo dell’arte”, per riprendere un felice concetto sviluppato dal sociologo americano Howard Becker, dove l’espressione “mondo dell’arte” racchiude un’idea piuttosto scontata per i cultori della pragmatica di un’operazione complessa come un festival musicale, ma troppo spesso trascurata da chi assiste allo spettacolo per trarne le più personali conclusioni e formulare la propria appassionata opinione. Chi assiste allo spettacolo si ferma allo spettacolo, fantasticando, sulla base del proprio gusto, immaginifiche soluzioni alternative di massima che renderebbero lo spettacolo a suo parere migliore. Ognuno con la propria formula, con la propria ricetta, un po’ come tutti ci divertiamo a fare con la nazionale di calcio. Ecco, per i salentini, per gli appassionati di musica popolare, per gli antropologi, gli etnomusicologi e gli operatori culturali, i clienti al bar, i musicisti locali (e non solo) e, soprattutto, per i detrattori, il concertone de La Notte della Taranta è la finale di un campionato mondiale in cui essere prodighi di consigli per l’allenatore (vedi, fuor di metafora, direttore artistico).
Molto più realisticamente, per i cultori della pragmatica dei mondi dell’arte, La Notte della Taranta, è una complessa catena di cooperazione, per riprendere ancora la terminologia di Becker, in cui ogni anello della catena gioca un suo ruolo nella costruzione di un’opera. E quando si parla di anelli della catena di cooperazione, si intende tanto l’orchestrale che va in assolo durante il concertone che il cuoco che, durante le prove, per un intero mese ha preparato da mangiare per i musicisti, i fonici, il direttore artistico. Ora, imparare a includere il cuoco, il barista, l’assistente di produzione nel mondo dell’arte che è La Notte della Taranta, a vent’anni dalla sua prima edizione, ci permette di sviluppare un esercizio che potrebbe rivelarsi piuttosto utile nella valutazione di un’operazione complessa come un festival musicale e nel renderci un po’ tutti meno fantasiosi “allenatori” scalpitanti dal divano di casa propria, ma più osservatori consapevoli e critici acuti e intelligenti.
Tanto più ora che al concertone de La Notte della Taranta si può assistere comodamente in poltrona, come per una partita del mondiale, dimenticando la distanza fisica e concettuale tra chi guarda e chi opera. Perché, ancora Becker, ci ricorda che “operare” vuol dire scendere a compromessi, obbedire a delle convenzioni che lo spettacolo dell’arte impone.
Allora, forse, la domanda più pertinente non è se il concertone de La Notte della Taranta è bello o brutto, se è poco autentico o molto contaminato, se è rispettoso della tradizione o se la tradizione musicale salentina la corrompe e la deturpa. L’approccio più costruttivo e, diciamolo, più intelligente è quello che induce lo spettatore/fruitore/critico/detrattore a chiedersi: sulla base delle forze in campo e di quello che rappresenta ormai il concertone per la realtà salentina, delle convenzioni imposte dal mondo dello spettacolo, dai flussi e le modalità di finanziamento, dalle caratteristiche tecniche di un palco e da quelle psicoacustiche dello spazio di fruizione, e da una lunga serie di aspetti troppo lunghi da enumerare qui, il concertone è riuscito a proporre la migliore soluzione sul piano artistico? Le conseguenze di questo esercizio falsamente banale si misurano nella distanza tra una ipotesi metodologica in fondo semplice e i benefici che si ricavano su un piano critico e analitico.
È vero, il concertone non è più la scena disarticolata e per certi versi improvvisata di 15-20 anni fa, e quindi una realtà meno spontanea e meno carica emotivamente. Il concertone è ormai uno spettacolo pensato, studiato, adattato alle convenzioni imposte dalla diretta televisiva (il concertone va in onda su Rai5) e per questa ragione molti salentini hanno perso interesse nel seguirlo, ripetendo con una punta di nostalgica riluttanza “La Notte della Taranta non mi piace più perché non è più quella di una volta”; altri, sempre salentini, però, sono fieri che le proprie tradizioni musicali e culturali possano contare su un canale di risonanza nazionale come il concertone. Chi ha ragione?
Entrambe le fazioni rappresentano un campione rappresentativo di buona parte del pubblico del concertone, quello che ogni maestro concertatore deve almeno provare a soddisfare. Parte delle convenzioni a cui il concertone si sottomette è il suo stesso pubblico a imporle, non solo la diretta televisiva, i finanziamenti, la politica, le ragioni tecniche, la costruzione di un palco immenso, le leggi della fisica acustica, le pretese narcisistiche di alcuni attori. In questo senso, l’interrogativo del maestro concertatore della ventesima notte della taranta, il giovane e talentuoso urbinate Raphael Gualazzi, è quanto mai legittimo e pertinente: quanto libero posso essere nel mio lavoro di arrangiamento musicale, rispetto a una cultura che va celebrata, rispettata e allo stesso tempo innovata? C’è un pubblico che si aspetta di riascoltare la melodia a cui è affezionato, ma ci sono anche neofiti nel pubblico del concertone, che si trovano lì per scoprire la tradizione. È questo, se vogliamo uno dei compiti più difficili per qualsiasi maestro concertatore che intelligentemente concepisce il concertone come un complesso e sofisticato “mondo dell’arte”.
Chissà cosa succede a Essaouira, dopo vent’anni in cui la tradizione musicale gnawa si è aperta ad altre culture musicali determinando un flusso turistico e una ricchezza economica paragonabili a quelli de La Notte della Taranta…