Il panorama sonoro della città cantante raccontato da Pasquale Scialò

Intervista all’autore della Storia della canzone napoletana

Desiderio 'e sole 1952 frontespizio
Desiderio 'e sole 1952 frontespizio
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Si può ancora parlare di canzone napoletana, o sarebbe meglio dire produzioni musicali legate alla città cantante per eccellenza?

Questa domanda si riferisce al complesso di temi trattati nel secondo volume della Storia della canzone napoletana di Pasquale Scialò che abbraccia il Novecento, a partire dagli anni Trenta, e in realtà quasi fino ai giorni nostri nonostante il limite cronologico indicato nel titolo, un libro che risponde a questa e a molte altre domande sulla complessa realtà moderna di una città che è stata una delle capitali europee dell’arte musicale

Infatti oltre alle tre parti principali nelle quali il volume è suddiviso, c’è una importante appendice intitolata ‘Appunti sul presente’ che arriva fino al vissuto della pandemia e che è un vero e proprio excursus dei fenomeni musicali che hanno avuto un maggiore impatto collettivo anche attraverso i social media.

La molteplicità di stili e generi e la varietà delle forme e della loro fusione è dunque la prosecuzione del panorama descritto minuziosamente dall’autore, che nel 2017 aveva pubblicato il primo volume della sua Storia della canzone napoletana (1824-1931) che è stato appena ristampato perché esaurito, e ora è associato al secondo volume del 2021 in un cofanetto (Pasquale Scialò, Storia della canzone napoletana 1824-1931 Volume I / 1932-2003 Volume II, Neri Pozza Editore 2023, 672 pagine € 49,00). Il minuzioso e prezioso lavoro di narrazione e documentazione dei fatti salienti che riguardano un mondo sonoro urbano nel quale la varietà convive con la continuità è dunque di nuovo completamente disponibile, e rappresenta un punto di riferimento imprescindibile per comprendere la peculiarità di questo teatro delle voci a cielo aperto che è Napoli.

Pasquale Scialò

Mentre la storia dell’epoca d’oro della cosiddetta ‘canzone classica napoletana’ è piuttosto nota, il mondo della musica partenopea degli anni Trenta e Quaranta del Novecento, raccontato nella prima parte del secondo volume intitolata ‘Canzoni in guerra’, è inevitabilmente condizionato dall’ascesa del fascismo ed è forse la parte meno conosciuta e meno nobile della sua produzione artistica, nel suo assecondare o sottostare alle direttive del regime.

Ma non bisogna dimenticare che la canzone napoletana è stata un fenomeno che ha assunto proporzioni nazionali e internazionali nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, come dimostra la controversa storia dei festival descritta nella seconda parte di questo volume, nella quale risaltano le polemiche, i conflitti e gli scontri tra scuole, fazioni e orientamenti.

Le numerose canzoni attraverso le quali Scialò racconta le vicende e il contesto nel quale sono state create e la loro rilevanza artistica e sociale, sono presentate con i relativi versi in lingua con a fianco le traduzioni in italiano rivolte a chi non conosce il napoletano, e molte di queste si possono ascoltare online perché alla fine di ciascuno dei due volumi è presente una playlist di cento brani selezionati dall’autore e ascoltabili tramite QrCode su Spotify.

Scialò riunisce in sé le competenze dello storico della musica e del compositore ed è per questo che le sue descrizioni delle canzoni sono sempre così ricche di particolari, canzoni che definisce come ‘beni emozionali’.

Nell’impossibilità di ricapitolare la ricchezza e l’accuratezza dei dettagli che compongono questo grande panorama sonoro partenopeo basterebbe citare un passaggio della Appendice che riassume in poche parole l’essenza della città cantante:

“In pochi altri luoghi al mondo come a Napoli è stato messo in musica tutto quanto fosse parte della vita pubblica e privata della città. La creatività di questa cultura, riconosciuta come musicale nella sua essenza, si è espressa in larga misura attraverso la forma della canzone: dalle storie d’amore, di odio o di passione alle vicende politiche. ”

In questo contesto i gesti vocali di matrice antica, gli accenti teatrali istrionici, e il  pathos e la comicità si ritrovano in misura diversa anche nelle esperienze recenti che sfiorano la trap, ma poiché la cosiddetta ‘epoca d’oro’ appare effettivamente lontana parlando con Pasquale Scialò vale la pena di concentrarsi maggiormente sui contenuti del secondo volume.

Possiamo ancora parlare di canzone napoletana oggi?

«La domanda era già stata posta verso la fine dell’Ottocento, quando si era detto che era morta...in realtà si tratta di un processo empatico e problematico. Possiamo rispondere che c’è una differenza tra canto e canzone. Il canto è un elemento connaturato nell’identità quasi neuro culturale perché si è sempre cantato a Napoli, e la stessa fondazione della città parte dal canto sirenico, forse un canto angosciante e doloroso, una melodia della sofferenza, tra luci e ombre, giorno e notte...

Nel corso del tempo il canto si è strutturato in diverse forme nel suo rapporto tra testo e musica. Quando invece parliamo di canzone sostanzialmente partirei dall'inizio dell’Ottocento, che poi è il tema del primo volume che dal 1824 arriva fino agli anni Trenta e Quaranta del Novecento, con le sue diverse matrici tra le quali quella di un canto di tradizione orale trascritto e aggiustato per il salotto. Alcune canzoni hanno le stesse forme della romanza da camera, ed è così che Tosti denomina Marechiaro, pur essendo una canzone d'autore classica».

«C’è poi l’aspetto forse trascurato che è quello del rapporto tra locale e globale o meglio tra alcune forme e stili autoctoni del canto napoletano in rapporto alla musica oltreconfine che nell’Ottocento è europea e nel Novecento di oltre oceano».

«C’è poi l’aspetto forse trascurato che è quello del rapporto tra locale e globale o meglio tra alcune forme e stili autoctoni del canto napoletano in rapporto alla musica oltreconfine che nell’Ottocento è europea e nel Novecento di oltre oceano. In qualche maniera la nascita della cosiddetta canzone napoletana classica che pensiamo come vera e autentica nasce dall’ibridazione di queste diverse matrici, in funzione anche dei diversi periodi storici. La canzone ha una forma ibrida e flessibile che è in dialogo con diversi generi di musica del tempo, come per esempio la musica da ballo che si diffonde all’inizio del Novecento. Questa flessibilità con i suoi aggiornamenti, trasformazioni, e interferenze procede nel tempo e i mezzi di produzione e la timbrica della canzone cambia attraverso i secoli.

L’ibridazione è il suo atto fondativo, tra continuità e discontinuità e la forma della canzone napoletana è aperta flessibile e produce una musica viva, che viene dal passato e che quando nel secondo Novecento entra i contatto con la popular music può esser riproposta in diversi modi, dal rock, al jazz, e così via. Il canto è strumento adattivo di relazioni comunitarie e tra l’altro questa ibridazione ha a che fare con le tradizioni del Mediterraneo».

Locandina Festival Napoletano di Sanremo 1931-1932
Locandina Festival Napoletano di Sanremo 1931-1932

Quali sono gli elementi che persistono e la rendono così riconoscibile?

«L’uso della lingua dialetto, la ricerca di una poetica gergale, Russo e Viviani ne sono un esempio, e la visione letteraria per esempio di Di Giacomo, con elementi che si trasformano anche attraverso il contatto con la lingua parlata. C’è poi la componente melodica, riconoscibile e memorizzabile che nasce dall’urgenza del canto, che in modo evidente si manifesta storicamente nelle Piedigrotte, come esempio della fattura artigianale della creazione artistica. Oggi si può parlare piuttosto di micromelodie,  di formule micromelodiche. Mentre gli aspetti tematici hanno abbracciato ogni genere di argomento».

Nell’introduzione parli di musica viva e di musica dei vivi.

«La viva è quell’ampia tradizione dei repertori musicali da fine Ottocento fino alla metà del Novecento, molto variegata con i suoi filoni e le sue tematiche, riproposta in diverse modalità diverse e aggiornate».

«La musica dei vivi è l’ibridazione popular dagli anni Sessanta in poi che si trasforma molto rapidamente, e che usa stereotipi delle musiche globali ma dove c’è sempre un riferimento al passato attraverso delle microcitazioni».

«La musica dei vivi è l’ibridazione popular dagli anni Sessanta in poi che si trasforma molto rapidamente, e che usa stereotipi delle musiche globali ma dove c’è sempre un riferimento al passato attraverso delle microcitazioni. Gli interpreti posso cogliere aspetti diversi per mettere in risalto una o l’altra cosa. Pensiamo alla contrapposizione fra scuole, come per esempio quella di Sergio Bruni. Negli ultimi decenni si può notare una accentuazione della nasalizzazione del canto che è una delle matrici della cosiddetta musica dei cosiddetti neomelodici o come  dice Fofi del sottoproletariato urbano e marginale. Si tratta di canzoni che raccontano i disagi delle periferie con dei residui di vocalità dei canti di tradizione orale a distesa, e nelle quali sono presenti condotte, comportamenti e valori delle diverse fasce sociali della città. Ma nel tempo le tematiche si trasformano. Per esempio il concetto di onore e gelosia, di protezione dei deboli è legato a quelle che si definiscono in senso ampio canzoni di giacca, per via di come vestivano gli esecutori che avevano anche un garofano all’occhiello, costruite secondo la sintesi di uno  schema teatrale drammatico in tre atti dal prologo all’epilogo. Vi si racconta una storia che viene somatizzata anche attraverso la gestualità e i tempi teatrali con l’alternanza di cantato e parlato. Le canzoni comiche della cosiddetta macchietta utilizzano in parte elementi simili ma con una veste ironica».

Evviva 'a tessera! frontespizio
Evviva 'a tessera! (frontespizio)

Uno dei capitoli del secondo volume è dedicato al periodo fascista della storia della canzone, che è quello meno conosciuto e indagato.

«Nel periodo fascista c’era una diffidenza nei confronti della canzone come fatto locale, marginale, ma vista la sua diffusione divenne conveniente controllarla attraverso l’organizzazione politica che gestiva il tempo libero, l’Opera nazionale del dopolavoro (OND). A partire dal 1934 si iniziò a  controllare la struttura delle feste e delle  rappresentazioni, inserendo nelle Piedigrotte anche danze tradizionali come ad esempio la 'ndrezzata di Ischia. A Napoli il più importante luogo in cui si allestivano gli eventi spettacolari era la  Rotonda Diaz in via Caracciolo, una sorta di teatro del popolo. Dai manifesti si apprende della invasione di cinquanta Pulcinellini che giravano, con una orchestra a poca distanza che suonava con il coro del Teatro San Carlo, ed erano feste che si concludevano con i fuochi di artificio. In questo periodo c’era una coesistenza tra canzoni di grande successo come ad esempio Passione e Dicicentello vuje, ma effettivamente il filone di regime è quello meno studiato. Mi viene in mente la celebre Gilda Mignonette che cantava Evviva a’ tessera!, per propagandare la tessera annonaria, e ho scoperto una copiella del 1938 con un brano intitolato Saluto a Hitler di cui non ne parlo nel libro, ma che  corrisponde alle foto della visita del dittatore a Napoli. C’è anche la dimensione coloniale, come in Teste di moro di E.A. Mario il cui testo è di Nicolardi e che definire razzista è dire poco. Da una parte c’è stata una rimozione, ma dall’altra va detto che in genere si tratta di canzoni che non hanno lasciato un segno nella memoria collettiva. Di quell’epoca ti ricordi soprattutto Passione, mentre altre sono soltanto documentate nelle raccolte dei programmi delle Piedigrotte. C’è però un altro aspetto da considerare, perché in quegli anni si sviluppa l'elemento comico derivato dalla macchietta ottocentesca, ma data la sua giocosità non viene censurato perché gli aspetti critici che sembrano rivolti all’interno, ma possono essere letti diversamente. Venivano concessi e non censurati perché ritenuti innocui, ma non possono essere considerati veri elementi antagonisti. Mi riferisco soprattutto alla cosiddetta macchietta rosa della donna di spettacolo che non trasforma la subalternità femminile e che non è protofemminista, anche perché sono canzoni scritte da uomini. La casa editrice La Canzonetta ha diffuso questo filone che ha avuto un certo successo. Il prototipo è 'O 'nnammurato mio di Raffaele Viviani, sviluppato poi dal suo attore Gigi Pisano che diede seguito a questa immagine di donna 'nsista, che si difende bene, guappa, con i suoi testi musicati da Cioffi».

Luisella Viviani prima intereprete di 'O 'nnammurato mio
Luisella Viviani prima intereprete di 'O 'nnammurato mio

Nel secondo volume c’è anche un capitolo dedicato al genere della cosiddetta risposta.

«In un certo senso si tratta di qualcosa di antico. Quando un brano ha moto successo genera osservazioni e amplificazioni del tema raccontato, soprattutto se c’è un finale aperto come nel caso del Guarracino, una tarantella di primo Ottocento. In una delle sue numerose versioni termina con ‘non ho più fiato datemi da bere e vi ringrazio’ senza dire come va a finire la storia. Ci sono almeno tre risposte: il processo  al guarracino nel quale c’è un tribunale che è di tradizione orale, poi il suo matrimonio nel quale la sardella partorisce un figlio che non è suo, e poi una versione recente ma le risposte continueranno perché è un epilogo aperto. Tra gli altri esempi possiamo citare Te voio bene assaje, con le sue numerose versioni di risposta, e Dove sta Zazà che ne ha generate una marea, anche quella nella quale Zazà viene ritrovata in una festa sulla Majella, e che lascia pensare che si tratti di una donna persa, con che Isaia di nuovo rinuncia a lei. Si tratta di un emblema di un momento storico che allo stesso tempo è fonte di sequel».

Zazà ritrovata

Sempre nel secondo volume dopo la prima parte dedicata alle “canzoni in guerra”, in quella successiva ti concentri sul periodo dei festival, che sono nati dai concorsi delle Piedigrotte.

«Le case editrici musicali organizzavano gare canore il 7 e 8 settembre di ogni anno,  legate alla ritualità devozionale della Madonna di Piedigrotta. Queste gare venivano preparate da una serie di audizioni che si svolgevano nel corso dell’anno con esibizioni nei teatri cittadini. Si trattava di una sorta di preselezione. Ma all’inizio degli Anni Cinquanta visto il ruolo minore assunto dalle Piedigrotte, nacque l’esigenza di creare un evento più importante sul piano mediatico. In passato c’era già stato un primo segnale con uno spettacolo musicale intitolato ‘Festival Napoletano’ presentato a Sanremo nei giorni a cavallo tra il 1932 e il 1933, ma è nel 1952 che nasce il primo festival della canzone napoletana organizzato dalla RAI, con due edizioni radiofoniche e dal 1955 in poi televisive. Siamo nel pieno del periodo laurino. Il sindaco di Napoli Achille Lauro, essendo un populista aveva interesse a diffondere il folklore napoletano e investì molto sul festival ma venne criticato con l’accusa di strumentalizzare la cultura partenopea. Nonostante le critiche, pensiamo a quella di  ‘gioviale cinico viceré dei tempi moderni’, ‘buffone’ e via seguito, diede pieno sostegno a questa iniziativa. Sul piano strettamente musicale il Festival aveva una doppia anima: da una parte i rifacimenti, e dall’altra le innovazioni con le melodie tradizionali arrangiate con uno stile più moderno. Basta pensare che c’era una doppia orchestra, quella napoletana  diretta da Giuseppe Anepeta che accompagnava i cantanti napoletani, e quella settentrionale diretta da Cinico Angelini. Ma poi nel tempo la doppia orchestra venne eliminata. Nel 1952 vinse Desiderio e’ sole, un riverbero del passato, ma la canzone arrivata al quarto posto, Sciummo, diventerà più tardi un successo internazionale grazie alla versione in inglese The River registrata prima da Bing Crosby e poi da Sinatra. Ma ne potremmo citare anche altre come per esempio Mandulino d’  'o Texas, O juke box 'e Carmela. Poi ci sono gli elementi innovativi, con canzoni che sul piano del costume hanno un impatto diverso come è il caso di Guaglione, o Lazzarella. Queste canzoni ebbero un grande successo non soltanto a Napoli ma furono diffuse in lingua originale e in traduzioni per l’estero da case editrici italiane. Per esempio Guaglione ha una versione italo francese, Bambino, cantata da Dalida e una di Lili Boniche. Lazzarella una versione francese cantata da Aurelio Fierro, e ci sono persino canzoni napoletane cantate in cinese, oltre a versioni in inglese e spagnolo incise in Italia ed esportate, perché le canzoni dei festival venivano diffuse all’estero anche tali e quali attraverso la distribuzione discografica internazionale.

Desiderio 'e sole 1952 frontespizio
 A Festival of Neapolitan Song di Aurelio Fierro

Non si deve dimenticare che l’anno in cui a Napoli venne presentata Tu si na’ cosa grande, a Sanremo vinse la Cinquetti con Non ho l’età.  A Napoli si cantava Palummella Swing, e il filone più innovativo è quello legato ai crooner, e al night club, come ad esempio Nun è peccato...

Questa produzione legata ai festival rispecchia come un sismografo le voghe nazionali e internazionali anche se sono presenti elementi più tradizionali. Tra gli anni Sessanta e Settanta la selezione delle canzoni diventa problematica, e l’avvento della controcultura della beat generation e l’assenza di una industria discografica, rende obsoleto dal punto di vista dei contenuti il festival che va incontro anche a diversi dei problemi organizzativi, con brogli e risse, ed esce di scena sia per il suo assetto culturale che produttiva. Una delle ultime edizioni venne addirittura  sospesa a causa dei tumulti...

Pensare che anche un etnomusicologo come Lomax che in quegli era in Italia a fare le sue ricerche sul campo, si interrogava sull’influenza delle matrici folkloriche come si desume da una delle sue lettere nella quale esprimeva l’interesse verso il retroterra culturale della canzone napoletana. Nello stesso periodo in uno dei suoi articoli Carpitella sosteneva che nel Festival di Sanremo c’era un filone alpino e filone  napoletano che considerava molto più interessante. Bisogna comunque dire che in quegli anni la tradizione della melodia napoletana influenzava in qualche modo la canzone italiana».

Tra parentesi la recente vittoria dello scudetto ha comportato una esplosione sonora della città dove musica e rumore si mescolano e si sovrappongono.

«Di fondo ci sono due elementi. L’esigenza di comunicare attraverso il canto e il rumore e tutto questo un tempo era ritualizzato. Pensiamo alle Piedigrotte, alla musica formalizzata attraverso le canzoni in gara che sfilavano sui carri allegorici, e alla vociante partecipazione del pubblico che le ascoltava in strada. Era un paesaggio sonoro nel quale vocalità e gesti sonori si mescolavano. Non a caso i futuristi si interessarono a questa realtà, e pensiamo a Cangiullo che scrisse una sua Piedigrotta. Napoli è da sempre la città dei rumori. Mozart in una sua lettera ricorda il rumore delle carrozze sul selciato del molo...

In origine c’erano queste feste pagano religiose con i loro canti rituali, e poi nel corso della prima metà dell’Ottocento Piedigrotta diventerà una gara canora, togliendo al pubblico questa possibilità di partecipare al canto. In questo senso i cori da stadio sono una sorta di cerimoniale laico collettivo, basta pensare a 'O surdato 'nnammurato cantato nelle curve...

Normalmente è la città che va allo stadio ma in questo caso è accaduto l’inverso, con lo stadio che è trasferito diffusamente in città con ogni genere di suoni. Si tratta della esigenza comunicativa di un sistema adattivo, perché in tutte le culture del sud si vive all’aperto per strada, e questo è un momento collettivo di condivisione

Più ci si avvicina al presente è più difficile mantenere uno sguardo distaccato.

«Nell’epilogo che è l’appendice al secondo volume parlo di arcipelago della canzone,  che immagino come la contemporaneità di tanti isolotti che sono nello stesso mare, ma con differenziazioni molto significative, e dove la canzone viva classica si può considerare la terraferma. La difficoltà sta nel fatto che c’è una moltiplicazione di ibridazioni continue tra stili, modi di cantare, generi, matrici, e questo rende molto difficile una eventuale classificazione. In ogni caso si deve cercare di non avere un orecchio pregiudiziale e ascoltare questa varietà e molteplicità, con le cose molto interessanti e quelle meno. Si può riflettere e provare ad ascoltare ma non respingere a priori. È difficile districarsi in questo mare, e dal mio punto di vista tendo a ricondurre questa varietà geosonora all’interno di alcuni filoni storici. Faccio un esempio, quello delle canzoni  di mala contemporanee in senso lato che coincidono con la produzione dei cosiddetti neomelodici. Un tempo c’erano le  canzoni di giacca  del guappo buono, oggi si parla della vita quotidiana nei quartieri periferici. Un kitsch musicale che c’è sempre stato lo ritroviamo nelle produzioni di videoclip inguardabili. Certi brani spot, fortemente legati ai videoclip non possono essere valutati al di fuori del rapporto tra musica e immagine di un prodotto audiovisuale che ha successo, ma nel quale è impossibile separare il testo dalla comunicazione visiva. C’è comunque una grande stratificazione di elementi e matrici all'interno della quale, per esempio, Liberato è un’invenzione di ingegneria cibernetica dello spettacolo per il modo in cui riesce a mescolare tutto questo. E poi c’è la grande idea comunicativa di non sapere chi è. Nel suo aspetto di incappucciato di una processione penitenziale paraliturgica c’è una dimensione arcaica di grande fascino, che verrebbe a mancare se si sapesse chi è, ed è per questo che non mi interessa saperlo. È uno scoglio di un condominio acquatico in un paesaggio sonoro multietnico rumorale poliedrico».

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